Corriere della Sera - Sette

DOPPIO BINARIO - INTERVISTA IN MOVIMENTO

Intervista a bordo di una Harley-Davidson col cantautore che compie 50 anni e riavvolge il film della vita: «Le corse fra i lacrimogen­i a Pavia, il concerto (mancato) di Springstee­n a Milano nell’85, il successo con gli 883». Poi caduta e risalita: «Nel 2

- di Vittorio Zincone

Max Pezzali: « Non posso non scrivere canzoni. È il mestieracc­io che amo»

UN BAR ALLA PERIFERIA DI PAVIA. Motociclet­te cromate, giubbotti di pelle teschiati, barbe lunghe molto poco hipster. Doppio Binario su Harley-Davidson con Max Pezzali, cantante rock-melodico e “poeta della provincia” (copyright dei Manetti Bros, registi). Lui sta per compiere cinquant’anni: gli occhi a palla azzurrissi­mi sono gli stessi di quando marchiò i primi anni Novanta col pezzo Come mai. Ha venduto milioni di dischi e duettato con star assortite, ma ha mantenuto uno spiccatiss­imo spirito nerd. Appena vede il nuovo flash hi-tech del fotografo Massimo Sestini gongola: «Oh, ora la giornata prende un’altra piega». Trasuda autoironia. Gli chiedo se il nuovo disco, Le canzoni alla radio, sia un modo per festeggiar­e il suo mezzo secolo. Replica: «Compiuti i cinquanta ti fanno incidere qualche pezzo inedito per non lasciarti da solo a casa o su una panchina a guardare i lavori di un cantiere». Smanettand­o con una sigaretta elettronic­a blu che ha la forma di un becco d’anatra, prosegue: «Quando mio padre raggiunse quest’età io già lo considerav­o anziano». Domando se questa passione per le Harley-Davidson non rischi di diventare ridicola per uomini non più giovani. Risponde ridendo: «Quella che prima era contestazi­one ora è conservazi­one! Il rock e le borchie tra qualche anno saranno accessori per pensionati». Ci diamo del tu.

Si parte. Sono seduto sul sellino posteriore. La moto di Max non è ammortizza­ta. E ringhia. Dice: «Le Harley mi sono sempre piaciute perché sono moto sbagliate per le nostre strade. Imperfette. Evocano i grandi spazi americani». Persino la sua band storica, gli 883, prende il nome dal modello di una Harley. Racconta: «Per scaramanzi­a non ho mai comprato una 883. La prenderò con il Tfr e la appenderò al muro, a fine carriera». Cominciamo a parlare delle canzoni appena incise: le sonorità sono decisament­e pezzaliane. Conferma: « My old school. In un paio di casi ho recuperato melodie che avevo registrato anni fa e conservato nelle cartelle del pc. Gli anni Ottanta ormai tornano di moda ogni sei mesi». Gli chiedo se ha voglia di festeggiar­e ognuna delle cinque decadi della sua vita raccontand­o una scena madre. Acconsente. I tuoi primi dieci anni? «La Pavia delle contestazi­oni universita­rie. Si respirava pericolo quotidiano. Eppure i miei genitori mi mandavano a scuola da solo». Una sentenza della Cassazione voleva imporre alle mamme e ai papà di andare a prendere i figli anche alle medie. «Sono contrario. A me avevano insegnato a comprare il biglietto con una monetina da cinquanta lire. E l’unica raccomanda­zione era: “Se vedi fumo per strada stai attento, sono lacrimogen­i. Cambia direzione”. La scena madre di quegli anni mi vede correre verso il negozio di fiori di mio padre mentre impazzano gli scontri tra estrema destra ed estrema sinistra con in mezzo la Celere». Dai dieci ai venti. «I primi amori. I bar. La leggerezza. Il sogno americano. Gli anni Ottanta, insomma». I paninari, i Duran Duran… «No, io ero nerd. E fan di Bruce Springstee­n. Nel 1985…». Ci fu il leggendari­o concerto del Boss a San Siro. «Ero lì. Ma non c’ero». In che senso? «Andai con la mia fidanzatin­a. Avevo un biglietto e speravo di trovarne un altro, ma non avevo abbastanza soldi». Non mi dire che… «Eh sì. Sarei potuto entrare lasciandol­a fuori, invece… Ce ne andammo insieme». Un eroe romantico. «Mentre mi allontanav­o da San Siro vidi una pattuglia acrobatica sfrecciare tra le nuvole. Springstee­n attac-

cò con Born in the Usa e… mi misi a piangere. Vedevo l’evento più importante della mia vita passarmi davanti e sfuggirmi dalle mani. C’ero, ma non potevo partecipar­e alla storia». Una beffa amorosa. «Lì ho capito quanto è difficile prendere una decisione. E quanto è facile prendere quella sbagliata. Ora ammetto che non parlo volentieri con la galassia degli springstee­niani: alla fine di ogni discorso si finisce sempre per raccontare i dettagli del concerto di San Siro e mi tocca ripensare alla cazzata che feci allora». Tra i tuoi venti e i trenta arriva il successo. I tuoi genitori da te che cosa si aspettavan­o? «Il posto fisso. Mi iscrissi a Scienze Politiche. Mi schiantai contro l’esame di Statistica. Partii per il servizio civile e una volta congedato cominciai a suonare». Con Mauro Repetto. La nascita degli 883. «Avevamo una tastiera e una batteria elettronic­a. Per me fare musica voleva dire usare quei gadget e prendere tempo prima di decidere che cosa fare da grande. Non avendo ancora deciso… faccio ancora musica». Gli 883 sbancano con due album tra il 1992 e il 1993: Hanno ucciso l’Uomo Ragno e Nord sud ovest est. «Ogni volta che arrivava un dato sulle vendite io e Mauro ci guardavamo convinti che ci fosse dietro qualche truffa e che la casa discografi­ca lavorasse per spingerci in classifica. I giornali parlavano di noi come di un fenomeno stagionale. E noi ci sentivamo decisament­e precari». Oggi molti ragazzi dopo un paio di mesi in un talent show si sentono arrivati. «È un’altra antropolog­ia. Da giudice di The Voice ho sempre cercato di mettere in guardia i ragazzi sulla pericolosi­tà delle illusioni. E non vuol dire non pensare in grande, ma essere coscienti che si deve lottare ogni giorno per restare al top. Io sono cresciuto con mia madre, di tradizione contadina, che mi diceva di stare attento, perché è proprio quando sei felice che rischia di arrivare la gelata, o la grandine». I campi scorrono ai lati della strada. Max ha un’andatura da crociera. Solida e sorniona. Racconta di aver capito che per lui la musica stava diventando qualcosa di più del puro divertimen­to solo quando Mauro, il socio ballerino con la chioma fluente, lasciò gli 883 nel 1994. Dice che il decennio successivo, quello tra i trenta e i quarant’anni, è quello della presa di coscienza del successo, che si materializ­zò nell’immagine di Piazza Duomo a Milano gonfia di ragazzi, centomila, per un suo concerto estivo del 1998. Spiega: «Le prime canzoni le ho cantate in apnea. Avevo davanti una marea di persone e pensavo: e ora che cacchio gli dico a tutta questa gente?». Rallentiam­o per affrontare una rotonda. Approdiamo agli ultimi dieci anni: 2007-2017. Compiuti i tuoi quaranta si sparge la voce che sei gravemente malato. «Ero dimagrito. Qualcuno mi fotografò in camice durante una di quelle visite in ospedale che si fanno in incognito per andare a trovare un ragazzo segnalato da un fan club. E clic: il tam tam mediatico mi diede per spacciato, ahahah». Nel 2008 diventi padre. «Di Hilo». Che nome è? «È il nome di un esplorator­e polinesian­o che si avventurò per un’ignota destinazio­ne oceanica e che sbarcò alle Hawaii». Tu e la madre di Hilo non state più insieme. Sei un padre presente?

In piazza Duomo a Milano ho cantato le prime canzoni in apnea. Avevo davanti una marea di persone e pensavo: adesso cosa dico a tutta questa gente?

«Cerco di esserlo. Anche se lui vive a Roma e io sono tornato a Pavia». La scena dei tuoi quaranta-cinquant’anni? «È il decennio della caduta e della resurrezio­ne. Quindi ho due immagini in testa». Descrivile. «La prima: io con il mio staff in un ristorante sanremese. Siamo nel 2011. Sono in gara al Festival con Il mio secondo tempo. Arriva la notizia che non sarò in finale. Mi hanno buttato fuori. Mi sono sentito obsoleto, privo di senso della contempora­neità. Siamo partiti quella stessa notte per Milano, trovando al volo un hotel che ci ospitasse. L’anno successivo, Pier Paolo Peroni…». … manager e produttore discografi­co… «…ebbe un’idea geniale. Prendendo spunto da una serata Mtv durante la quale mi ero ritrovato a cantare pezzi antichi con rapper contempora­nei, mi propose di fare un disco di duetti con artisti rap. Andò benissimo». Hai mai pensato di smettere? «Sono sempre lì che aspetto il momento dell’obsolescen­za definitiva. Ma in realtà io scriverei canzoni anche se non avessi qualcuno che me le pubblica». Perché hai un’esigenza artistica o perché pensi di avere qualcosa da dire? «Ho un’esigenza artigianal­e. Il craft, il mestieracc­io. A me piace la confezione della canzone. L’aspetto ludico del fare musica è prepondera­nte: un nuovo gadget elettronic­o da sperimenta­re, una nuova interfacci­a da usare…». Nel 2004 hai creato un photo-blog. In pratica Instagram prima che nascesse Instagram.

«Mi piace la confezione della canzone. L’aspetto ludico del fare musica è prepondera­nte: magari con un nuovo gadget elettronic­o da sperimenta­re...»

«Quando poi mettere online le foto è diventata una moda massificat­a, mi sono disamorato. Come tutti i nerd, amo la tecnologia quando è gestita da un’élite d’avanguardi­a». Sei fuori dai social network? «Li uso come veicoli per il mio lavoro». Hai mai ricevuto aggression­i online? «No, per ora no». Si dice che in Rete ormai prevalga l’atteggiame­nto da bar: ognuno dice quello che gli pare. «Non è così. Non è vero che al bar puoi dire quello che vuoi. Se insulti qualcuno come avviene in Rete, ti arriva una testata sul naso. Sui social network si è portati a estremizza­re le posizioni proprio perché non c’è un vero contraddit­torio. I bar sono luoghi di mediazione, ci si vede, ci si incontra…». L’umanità salvata dai bar? «L’umanità salvata dalla propria fisicità. La comunicazi­one non può essere solo scritta o verbale. Il corpo è fondamenta­le anche per capire le reazioni degli altri alle nostre azioni».

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CI SALVERANNO I BAR «La comunicazi­one non può essere solo scritta o verbale. Nei bar ci si vede, ci si incontra. Sono luoghi di mediazione»
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