MANO LIBERA
Anche gli indipendentisti devono pagare le tasse
«ATTENZIONE, O PELLEGRINO / A quest’urna non ti accosta... / Se si sveglia l’inquilino / Paghi subito un’imposta!». Lo sferzante epigramma scritto sulla tomba del grande Quintino Sella, il primo che tentò davvero di far pagar le tasse a un Paese recalcitrante, sarebbe piaciuta ai 32 venetisti contro cui il procuratore di Vicenza Antonino Cappelleri ha firmato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari per evasione fiscale e altri reati. Tra i quali, appunto, come spiegava il Corriere del Veneto, l’associazione a delinquere allo «scopo di istigare alla disobbedienza fiscale» e incitare i contribuenti veneti a «ritardare, sospendere e non effettuare il pagamento delle imposte dirette o indirette» allo stato italiano.
UNA POSIZIONE VECCHIA come il cucco. Della quale scrisse anni fa Mario Costa Cardol, collaboratore della Padania. Il quale, nonostante le simpatie leghiste, ironizzò nel libro Ingovernabili da Torino sul fatto che fin dall’inizio «gli esattori si trovarono alle prese con contribuenti abituati da secoli a giustificare la frode fiscale come legittima difesa dai soprusi di un governo straniero. Già prima che l’Unità fosse compiuta, il Piemonte aveva avuto brutte gatte da pelare con le denunce dei liguri: Genova, di fronte al fisco, risultava tre volte più povera di Torino, mentre era vero piuttosto il contrario. Le denunce, che in Piemonte e in Savoia non si scostavano troppo dalla realtà, risultavano a Genova del tutto inverosimili. Genova, si sa, era mazziniana, e negare i soldi all’erario “piemontese” costituiva una virtù». Quanto ai romani, ci misero un attimo a scoprire il rimpianto per il Papa Re: perché pagar le tasse all’Italia se loro erano papalini? Dei meridionali non parliamo: dopo aver inneggiato a Giuseppe Garibaldi il liberatore, presero a «chiagnere» sulla rimozione dei Borbone. La borghesia, secondo Costa Cardol, «considerava un’offesa non già l’inasprimento, bensì la pura e semplice applicazione delle leggi tributarie». I veneti, dimentichi della durezza della Serenissima sull’applicazione delle leggi (fiscali incluse) sospiravano poareti su una filastrocca che passava in rassegna le varie stagioni, pranzo e cena, sotto i dogi e poi Napoleone e poi gli Asburgo-Lorena: «Co San Marco governava se disnava e se senava / coi francesi bona zente se disnava solamente / co la casa de Lorena no se disna e no se sena...». E col regno di Sardegna? «Chi lo ga in tel cul se ’o tegna!». I piemontesi alla Giovanni Lanza o alla Quintino Sella, storicamente abituati a pagare le imposte, erano basiti. E scandalizzati soprattutto da Milano. La capitale lombarda, «che la geografia industriale e i suoi abitanti indicavano come capitale spontanea dell’Italia produttiva, entrava nella storia dell’unità nazionale come portabandiera dell’evasione».
GLI EVASORI «autonomisti» di ieri e di oggi dovrebbero rileggersi quanto diceva il più grande autonomista della nostra storia, il leader sudtirolese Silvius Magnago: «L’invito alla rivolta fiscale di Bossi non l’avrei fatto mai. La mia patria è l’Austria, ma il mio Stato è l’Italia. Anche un milanese può amare la sua patria e odiare il suo Stato. Ci sono però doveri che tutti i cittadini hanno. E pagare le tasse è uno di questi. Anche se lo Stato è corrotto. Noi siamo forse l’unico partito di governo, in Italia, che non ha preso una lira sporca. Ma nonostante il disagio di vivere in uno Stato così corrotto insisto: le tasse vanno pagate».