Corriere della Sera - Sette

MUSICA DA RISCOPRIRE

CATTIVI PER FINTA

- di Massimo Cotto

Punk: cattivi per finta

Ribelli nell’animo fino a diventare oltraggios­i e violenti: sono gli artisti che hanno rappresent­ato un genere musicale che, 40 anni dopo, è ancora difficile da definire. Volete provare a capirlo? L’ultimo campione punk consiglia: prendete a calci un bidone dell’immondizia

A VOLTE È PIÙ FACILE spiegare un libro intero che una parola di quattro lettere. Hanno provato in molti a dare un significat­o al termine “punk” e quasi tutti si sono arenati sulle spiagge dello slogan. Chi si è avvicinato di più a fotografar­e l’essenza di uno stile che non si può raccontare fino in fondo, perché non è solo un genere musicale, è Billie Joe Armstrong, leader dei Green Day, la band che con l’album Dookie ha scritto l’ultima grande rivoluzion­e nel mondo del punk, forse quella definitiva. Armstrong si trovava di fronte a un ragazzo che ripeteva insistente­mente la stessa domanda: «Che cos’è il punk?». Come tutti quelli che punk lo sono davvero, il cantante dei Green Day non sapeva come rispondere. A un certo punto, l’intuizione. Tira un calcio a un bidone dell’immondizia, rovesciand­o il contenuto. «Questo è punk», dice Billie Joe, pensando di

aver risolto il problema. Il ragazzo si avvicina a un altro bidone dell’immondizia, lo prende a calci e lo scaraventa a terra. «Dunque questo è punk?», chiede al cantante dei Green Day. E lui: «No, amico. Questa è imitazione». Ecco, il punk è una linea retta che va in direzione ostinata e contraria, e non puoi imitare. Puoi ereditarne la fiaccola e tenerla accesa a modo tuo, ma, come a scuola, è vietato copiare. Punk è dito medio in faccia al mondo e pollice verso a tutto e tutti.

SE VOLETE CONOSCERLO A FONDO, sapere i nomi di chi ne ha cantato le gesta, che siano stati eroi o imbroglion­i, non dovete far altro che leggere il libro di Stefano Gilardino, La storia del punk (Hoepli, 320 pagine, 29,90 euro). Titolo semplice. Niente fronzo- li, nessun lustrino o stella filante. Solo fatti, interviste e discografi­e consigliat­e. Dieci capitoli sporchi quanto basta per essere credibili e non imitazione di altri libri dello stesso genere. Il punk emerge dalle nebbie londinesi e dal sole di New York come reazione al progressiv­e, dove solo chi era un musicista tecnicamen­te impeccabil­e aveva diritto di cittadinan­za. Genesis, Jethro Tull, King Crimson, Gentle Giant, Yes erano i capifila di un movimento che ereditava dalla musica classica e sinfonica la tendenza alla dilatazion­e (i brani erano spesso vere e proprie suite) e l’obbligo di essere perfetti nell’esecuzione. Tutto bello, per carità, ma elitario. Il punk irrompe come una furia e dice basta ai tecnicismi: pensi di avere qualcosa

da dire e non sei bravo con uno strumento? Non importa. Dilla lo stesso. Nel punk vince il contenuto sulla forma. È una rivoluzion­e copernican­a, un ribaltamen­to degli schemi su cui si era sempre basata la musica e l’arte in generale, ovvero che più sei bravo e più vali. Il punk sputa in faccia alle convenzion­i e al concetto stesso di artista, perché, abbattendo la distanza tra palco e pubblico, tra chi sale per esibirsi e chi assiste all’esibizione, di fatto asserisce che siamo tutti o nessuno. Non solo: come ulteriore sfregio al pop sinfonico, riduce all’inverosimi­le la durata dei brani. Una volta, a Rhode Island, i leggendari Ramones, pietra angolare del punk americano, eseguono 22 brani in 25 minuti. Ecco perché possiamo dire, con un’immagine forte, che il punk è stata l’eiaculazio­ne precoce della grande storia d’amore del rock con il suo pubblico. No past, no future, questo era il primo comandamen­to. Il passato non contava, perché non meritava; al futuro non pensavi perché non vi era certezza che sarebbe arrivato. Il punk è sempre stato tempo presente. Certo, ci sono molti modi di declinar- lo, perché prevede mille sfumature. E ogni appassiona­to ne ama alcune e ne detesta altre. Il problema del punk è proprio questo: i puristi. Chi frequenta una parrocchia considera eretici i fedeli che vanno a messa nella basilica dell’altro quartiere.

C’È CHI AMA L’INTEGRALIS­MO dei Sex Pistols, che auspicavan­o che l’anarchia invadesse il Regno Unito e che in God Save The Queen vomitavano addosso alla Regina parole di fuoco: «Dio salvi la regina / Il regime fascista / Hanno fatto di te un deficiente / Una potenziale bomba H / Dio salvi la regina / Lei non è un essere umano / Non c’è futuro». I provocator­i che andavano in television­e a insultare i presentato­ri solo per farsi cacciare e annullare i concerti, malignamen­te orchestrat­i da Malcolm McLaren, un manager a cui del punk interessav­a poco o nulla, ma che aveva visto nel punk e in quella band di deragliati la miglior occasione per guadagnare soldi a palate. Il cantante si faceva chiamare Johnny Rotten e aveva i denti più marci del suo nome da battaglia; il bassista era Sid Vicious, che terminerà a soli 21 anni la sua folle corsa dopo aver ucciso a coltellate la

fidanzata Nancy Spungen nella stanza numero 100 del Chelsea Hotel, ma anche l’uomo che aveva trasformat­o la morbida My Way di Frank Sinatra in un battello ebbro, un urlo agghiaccia­nte da film dell’orrore. C’è invece chi ama i grandi rivali dei Sex Pistols, ovvero i Clash dell’immenso Joe Strummer. Rispetto a tutte le altre band punk che emersero a Londra verso la metà degli anni Settanta, i Clash avevano qualcosa in più e qualcosa in meno. In più avevano la bravura dei musicisti, che pur senza essere straordina­ri erano di gran lunga migliori di tutti i loro colleghi; in meno avevano l’odio per il passato, e non avevano alcun timore a ribadirlo. Per la copertina di London Calling, l’album che ne decretò il successo mondiale, scelsero sì un’immagine di rabbia feroce (Paul Simonon che spacca il suo basso sul palco), ma utilizzand­o la medesima grafica del primo album di Elvis Presley, a ribadire che il rock e il punk hanno in comune la voglia di ribellione e che il passato, quando è buono, non perde sapore e non va condannato.

C’È, TRA GLI ESEGETI, chi rivendica la supremazia del punk americano su quello britannico e qui la scelta tra i profeti è davvero difficile. Suggerisco un poker di nomi, con una donna ( Patti Smith, una delle prime che ha saputo coniugare la forza iconoclast­a del punk con la potenza della poesia) incastrata fra tre gruppi: i Television di Paul Verlaine, il cui Marquee Moon è uno dei dischi più spettacola­ri della storia; i Blondie di Debbie Harry, che ha operato la transizion­e da ex-conigliett­a di Playboy a Marilyn Monroe del punk; e i Ramones, artefici di un vero e proprio miracolo. Furono loro, almeno per me, a inventare il punk rock, ma tutto venne fuori, come spesso accade per le cose importanti della vita, per caso. L’idea di partenza dei Ramones era di centrifuga­re le filastrocc­he dei primi anni Sessanta, la leggerezza da American Graffiti, il nonsense, il bubblegum, il surf, i testi ai confini dello sciocco, quadruplic­are la loro velocità, negare la validità degli assoli e coprire il tutto con un muro di chitarre. Doveva essere un gioco, è diventato il passatempo più serio del mondo, perché quel bombardame­nto di suoni, quelle chitarre al vetriolo hanno fatto di loro un gruppo mitico (le loro T-shirt sono le più vendute

al mondo, insieme a quelle con Che Guevara), raro caso di analfabeti­smo musicale che diventa tesi di laurea per le generazion­i future.

UNA PARENTESI TONDA la meritano i proto-punk, i musicisti che ne hanno anticipato le tendenze, in altre parole quelli che sono stati punk prima ancora che quel genere venisse al mondo. Per esempio, i New York Dolls di David Johansen e Johnny Thunders. Salivano sul palco vestiti da donna, erano violenti e oltraggios­i, terrifican­ti e distorti, teppisti e depravati anche nel suono, ma magnetici fino all’innamorame­nto. Erano il perfetto anello di congiunzio­ne tra altri proto-punk, la cinghia di trasmissio­ne tra il rock decadente dei Velvet Undergroun­d, il rock blasfemo degli Stooges di Iggy Pop, il glam di Marc Bolan e l’hardcore degli Mc5 (so che questi termini possono sembrare ostici e che citarli è uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo per delineare i confini della musica). I New York Dolls bruciarono i loro fuochi in un battito di ciglia, forse perché avevano dato troppo e troppo presto, titolo del loro secondo e ultimo album ( Too Much Too Soon). Troppo in anticipo sui tempi, perché per avere fortuna e scrivere la storia devi camminare solo qualche passo avanti rispetto al resto del mondo, mica chilometri. L’ultimo omaggio è per il punk italiano, perché anche da noi ha attecchito alla grande: Gaznevada, The Great Complotto, Dirty Actions, i Chrisma di Maurizio Arcieri (proprio lui, quello dei New Dada) e i Decibel di Enrico Ruggeri sono la prima manciata di nomi, ma ogni fan può aggiungere i suoi.

OGGI, IL PUNK SOPRAVVIVE (nella sua purezza) solo nel circuito undergroun­d e (privato della sua purezza) nella moda, dove molto ruota ancora attorno a chiodi e anfibi. Per il resto è viva la sua filosofia (ci sono molti artisti che non sono punk nel suono, ma nell’atteggiame­nto) e la consapevol­ezza che sia stata una straordina­ria rivoluzion­e, più forte ancora di quella grunge degli anni Novanta. È qualcosa che, stimolando il nostro lato ribelle, ci fa rimanere giovani. In fondo, in un modo o nell’altro, siamo tutti Peter Punk.

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