MUSICA DA RISCOPRIRE
CATTIVI PER FINTA
Punk: cattivi per finta
Ribelli nell’animo fino a diventare oltraggiosi e violenti: sono gli artisti che hanno rappresentato un genere musicale che, 40 anni dopo, è ancora difficile da definire. Volete provare a capirlo? L’ultimo campione punk consiglia: prendete a calci un bidone dell’immondizia
A VOLTE È PIÙ FACILE spiegare un libro intero che una parola di quattro lettere. Hanno provato in molti a dare un significato al termine “punk” e quasi tutti si sono arenati sulle spiagge dello slogan. Chi si è avvicinato di più a fotografare l’essenza di uno stile che non si può raccontare fino in fondo, perché non è solo un genere musicale, è Billie Joe Armstrong, leader dei Green Day, la band che con l’album Dookie ha scritto l’ultima grande rivoluzione nel mondo del punk, forse quella definitiva. Armstrong si trovava di fronte a un ragazzo che ripeteva insistentemente la stessa domanda: «Che cos’è il punk?». Come tutti quelli che punk lo sono davvero, il cantante dei Green Day non sapeva come rispondere. A un certo punto, l’intuizione. Tira un calcio a un bidone dell’immondizia, rovesciando il contenuto. «Questo è punk», dice Billie Joe, pensando di
aver risolto il problema. Il ragazzo si avvicina a un altro bidone dell’immondizia, lo prende a calci e lo scaraventa a terra. «Dunque questo è punk?», chiede al cantante dei Green Day. E lui: «No, amico. Questa è imitazione». Ecco, il punk è una linea retta che va in direzione ostinata e contraria, e non puoi imitare. Puoi ereditarne la fiaccola e tenerla accesa a modo tuo, ma, come a scuola, è vietato copiare. Punk è dito medio in faccia al mondo e pollice verso a tutto e tutti.
SE VOLETE CONOSCERLO A FONDO, sapere i nomi di chi ne ha cantato le gesta, che siano stati eroi o imbroglioni, non dovete far altro che leggere il libro di Stefano Gilardino, La storia del punk (Hoepli, 320 pagine, 29,90 euro). Titolo semplice. Niente fronzo- li, nessun lustrino o stella filante. Solo fatti, interviste e discografie consigliate. Dieci capitoli sporchi quanto basta per essere credibili e non imitazione di altri libri dello stesso genere. Il punk emerge dalle nebbie londinesi e dal sole di New York come reazione al progressive, dove solo chi era un musicista tecnicamente impeccabile aveva diritto di cittadinanza. Genesis, Jethro Tull, King Crimson, Gentle Giant, Yes erano i capifila di un movimento che ereditava dalla musica classica e sinfonica la tendenza alla dilatazione (i brani erano spesso vere e proprie suite) e l’obbligo di essere perfetti nell’esecuzione. Tutto bello, per carità, ma elitario. Il punk irrompe come una furia e dice basta ai tecnicismi: pensi di avere qualcosa
da dire e non sei bravo con uno strumento? Non importa. Dilla lo stesso. Nel punk vince il contenuto sulla forma. È una rivoluzione copernicana, un ribaltamento degli schemi su cui si era sempre basata la musica e l’arte in generale, ovvero che più sei bravo e più vali. Il punk sputa in faccia alle convenzioni e al concetto stesso di artista, perché, abbattendo la distanza tra palco e pubblico, tra chi sale per esibirsi e chi assiste all’esibizione, di fatto asserisce che siamo tutti o nessuno. Non solo: come ulteriore sfregio al pop sinfonico, riduce all’inverosimile la durata dei brani. Una volta, a Rhode Island, i leggendari Ramones, pietra angolare del punk americano, eseguono 22 brani in 25 minuti. Ecco perché possiamo dire, con un’immagine forte, che il punk è stata l’eiaculazione precoce della grande storia d’amore del rock con il suo pubblico. No past, no future, questo era il primo comandamento. Il passato non contava, perché non meritava; al futuro non pensavi perché non vi era certezza che sarebbe arrivato. Il punk è sempre stato tempo presente. Certo, ci sono molti modi di declinar- lo, perché prevede mille sfumature. E ogni appassionato ne ama alcune e ne detesta altre. Il problema del punk è proprio questo: i puristi. Chi frequenta una parrocchia considera eretici i fedeli che vanno a messa nella basilica dell’altro quartiere.
C’È CHI AMA L’INTEGRALISMO dei Sex Pistols, che auspicavano che l’anarchia invadesse il Regno Unito e che in God Save The Queen vomitavano addosso alla Regina parole di fuoco: «Dio salvi la regina / Il regime fascista / Hanno fatto di te un deficiente / Una potenziale bomba H / Dio salvi la regina / Lei non è un essere umano / Non c’è futuro». I provocatori che andavano in televisione a insultare i presentatori solo per farsi cacciare e annullare i concerti, malignamente orchestrati da Malcolm McLaren, un manager a cui del punk interessava poco o nulla, ma che aveva visto nel punk e in quella band di deragliati la miglior occasione per guadagnare soldi a palate. Il cantante si faceva chiamare Johnny Rotten e aveva i denti più marci del suo nome da battaglia; il bassista era Sid Vicious, che terminerà a soli 21 anni la sua folle corsa dopo aver ucciso a coltellate la
fidanzata Nancy Spungen nella stanza numero 100 del Chelsea Hotel, ma anche l’uomo che aveva trasformato la morbida My Way di Frank Sinatra in un battello ebbro, un urlo agghiacciante da film dell’orrore. C’è invece chi ama i grandi rivali dei Sex Pistols, ovvero i Clash dell’immenso Joe Strummer. Rispetto a tutte le altre band punk che emersero a Londra verso la metà degli anni Settanta, i Clash avevano qualcosa in più e qualcosa in meno. In più avevano la bravura dei musicisti, che pur senza essere straordinari erano di gran lunga migliori di tutti i loro colleghi; in meno avevano l’odio per il passato, e non avevano alcun timore a ribadirlo. Per la copertina di London Calling, l’album che ne decretò il successo mondiale, scelsero sì un’immagine di rabbia feroce (Paul Simonon che spacca il suo basso sul palco), ma utilizzando la medesima grafica del primo album di Elvis Presley, a ribadire che il rock e il punk hanno in comune la voglia di ribellione e che il passato, quando è buono, non perde sapore e non va condannato.
C’È, TRA GLI ESEGETI, chi rivendica la supremazia del punk americano su quello britannico e qui la scelta tra i profeti è davvero difficile. Suggerisco un poker di nomi, con una donna ( Patti Smith, una delle prime che ha saputo coniugare la forza iconoclasta del punk con la potenza della poesia) incastrata fra tre gruppi: i Television di Paul Verlaine, il cui Marquee Moon è uno dei dischi più spettacolari della storia; i Blondie di Debbie Harry, che ha operato la transizione da ex-coniglietta di Playboy a Marilyn Monroe del punk; e i Ramones, artefici di un vero e proprio miracolo. Furono loro, almeno per me, a inventare il punk rock, ma tutto venne fuori, come spesso accade per le cose importanti della vita, per caso. L’idea di partenza dei Ramones era di centrifugare le filastrocche dei primi anni Sessanta, la leggerezza da American Graffiti, il nonsense, il bubblegum, il surf, i testi ai confini dello sciocco, quadruplicare la loro velocità, negare la validità degli assoli e coprire il tutto con un muro di chitarre. Doveva essere un gioco, è diventato il passatempo più serio del mondo, perché quel bombardamento di suoni, quelle chitarre al vetriolo hanno fatto di loro un gruppo mitico (le loro T-shirt sono le più vendute
al mondo, insieme a quelle con Che Guevara), raro caso di analfabetismo musicale che diventa tesi di laurea per le generazioni future.
UNA PARENTESI TONDA la meritano i proto-punk, i musicisti che ne hanno anticipato le tendenze, in altre parole quelli che sono stati punk prima ancora che quel genere venisse al mondo. Per esempio, i New York Dolls di David Johansen e Johnny Thunders. Salivano sul palco vestiti da donna, erano violenti e oltraggiosi, terrificanti e distorti, teppisti e depravati anche nel suono, ma magnetici fino all’innamoramento. Erano il perfetto anello di congiunzione tra altri proto-punk, la cinghia di trasmissione tra il rock decadente dei Velvet Underground, il rock blasfemo degli Stooges di Iggy Pop, il glam di Marc Bolan e l’hardcore degli Mc5 (so che questi termini possono sembrare ostici e che citarli è uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo per delineare i confini della musica). I New York Dolls bruciarono i loro fuochi in un battito di ciglia, forse perché avevano dato troppo e troppo presto, titolo del loro secondo e ultimo album ( Too Much Too Soon). Troppo in anticipo sui tempi, perché per avere fortuna e scrivere la storia devi camminare solo qualche passo avanti rispetto al resto del mondo, mica chilometri. L’ultimo omaggio è per il punk italiano, perché anche da noi ha attecchito alla grande: Gaznevada, The Great Complotto, Dirty Actions, i Chrisma di Maurizio Arcieri (proprio lui, quello dei New Dada) e i Decibel di Enrico Ruggeri sono la prima manciata di nomi, ma ogni fan può aggiungere i suoi.
OGGI, IL PUNK SOPRAVVIVE (nella sua purezza) solo nel circuito underground e (privato della sua purezza) nella moda, dove molto ruota ancora attorno a chiodi e anfibi. Per il resto è viva la sua filosofia (ci sono molti artisti che non sono punk nel suono, ma nell’atteggiamento) e la consapevolezza che sia stata una straordinaria rivoluzione, più forte ancora di quella grunge degli anni Novanta. È qualcosa che, stimolando il nostro lato ribelle, ci fa rimanere giovani. In fondo, in un modo o nell’altro, siamo tutti Peter Punk.