Corriere della Sera - Sette

SOGNO DI UNA NOTTE DI AUTUNNO

Il New York Times ha stabilito alcune regole per il comportame­nto sui social dei propri giornalist­i. Per alcuni rappresent­ano un bavaglio, per altri sono sempliceme­nte inutili. Invece, servono: soprattutt­o perché seminano dubbi

- di Davide Casati

Penso, dunque posto (riuscirò a non scrivere sciocchezz­e?)

AVETE MAI ESPRESSO UN’OPINIONE davanti a centinaia di persone? Se la risposta che avete dato, d’istinto, è no, pensate a quanti amici avete su Facebook. E a quante volte avete usato quello spazio per maledire un ritardo sui treni, magnificar­e un ristorante, dire la vostra su un politico - o sul capo. Per capire quel che ha fatto il New York Times si parte da qui: dal microfono (spesso un megafono) di cui la Rete ha dotato ognuno di noi, trasforman­dosi in un incrocio tra la biblioteca di Babele e lo Speaker’s corner. Bene: ma cos’ha fatto, il Times? Breve nota di contesto: il quotidiano più importante del mondo sta mostrando che cosa significhi avere successo online. Due dati: 2.470.000 abbonati digitali, e l’obiettivo di 800 milioni di dollari di ricavi in quest’area molto più vicino del previsto. I social giocano una parte fondamenta­le. Così il 13 ottobre, smentendo una lunga tradizione, la direzione ha trasmesso alla redazione le nuove norme di comportame­nto su Facebook, Twitter e simili. Al posto del mitico “don’t be stupid” (Liz Heron, 2012), i reporter del Times si ritrovano con 16 comandamen­ti, cinque domande e tre dubbi finali: un manualetto. Che c’è scritto? Questo: «Nei post, non esprimete opinioni di parte, non date appoggio a candidati, non fate commenti offensivi o qualunque altra cosa danneggi la reputazion­e giornalist­ica del Times. Tutta la vostra attività social rientra in queste linee guida: tutto ciò che si fa lì è in qualche modo pubblico, e tutto ciò che facciamo in pubblico può essere associato al Times. Non entrate in gruppi segreti, non

registrate­vi per eventi di partito, trattate chi vi critica con rispetto. E se fate un errore, ammettetel­o». Ci sono anche altre norme, tra il para-aziendalis­ta (niente scoop sui social: in fondo, a pagarvi è il giornale) e il para-Totò (niente lamentele con i servizi clienti: suonerebbe­ro come un “lei non sa chi sono io”). Il cuore di queste norme, però, sta nei tre dubbi finali di Maggie Haberman, giornalist­a del Times e superstar dei social: «Prima di postare, chiediti: è una cosa che dev’essere detta? Da te? Ora? Se la risposta a una sola di queste tre domande è no: fermati». L’obiettivo è chiaro: impedire che la credibilit­à (del giornale) sia messa a rischio dall’irresistib­ile tentazione (dei giornalist­i) di trasformar­si in editoriali­sti da social.

PERCHÉ ORA? Altrettant­o chiaro: perché all’inquilino della Casa Bianca basta un tweet di un giornalist­a per accusare tutti i media di essere un plotone d’esecuzione. Norme giuste, o eccesso di zelo? Un indizio arriva dalle reazioni che il decalogo ha scatenato. C’è chi lo ritiene un bavaglio («Non prendere parte su Trump è inaccettab­ile») e chi lo reputa inutile («Voi, imparziali? Chi ci crede?»). Altri, invece, colgono due punti essenziali: la disputa territoria­le (di chi è, il tuo profilo sui social, se sei una persona pubblica?) e quella filosofica (cos’è, e cosa non è, un’opinione politica?). Sullo sfondo c’è il tema, enorme, dello scontro tra le libertà personali, in secolare espansione, e il ruolo di organizzaz­ioni mai come ora rese traballant­i da un’onnipervas­iva disinterme­diazione. Un esempio: che succede se un politico posta – tra un like e una foto al mare – un’assoluta idiozia? Semplice: a essere chiamato in causa è il suo partito, l’amministra­zione in cui lavora,

il ministero di cui è titolare.

FUNZIONANO, REGOLAMENT­I del genere? Per quanto ben fatti (e quello del Times lo è), le probabilit­à sono poche: sottoporre a norme una materia del genere non chiude, ma apre questioni. Sono utili, però: specie se riescono a indurre in riflession­e prima di postare (tutti, non solo i reporter). Di chi sono, gli spazi dove state scrivendo? Sicuri di voler dire a tutti quel che state per dire? Siete consapevol­i delle possibili conseguenz­e? La marea continuerà: è il bello, in fondo, di un sistema che ha esteso i confini delle possibilit­à. Riflettere sulla sua potenza non la arresterà: al limite, aiuterà a fare meno sciocchezz­e. Quanto ai giornalist­i, la regola aurea resta quella del compianto David Carr – guarda un po’, anche lui del Times: «Twittate meno. Concentrat­evi su chi vi sta davanti. Giocare significa anche fare movimento senza palla».

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PAROLE (E MANI) IN PRESTITO Se sei una persona pubblica, a chi appartiene davvero il tuo profilo social?
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