SOGNO DI UNA NOTTE DI AUTUNNO
Il New York Times ha stabilito alcune regole per il comportamento sui social dei propri giornalisti. Per alcuni rappresentano un bavaglio, per altri sono semplicemente inutili. Invece, servono: soprattutto perché seminano dubbi
Penso, dunque posto (riuscirò a non scrivere sciocchezze?)
AVETE MAI ESPRESSO UN’OPINIONE davanti a centinaia di persone? Se la risposta che avete dato, d’istinto, è no, pensate a quanti amici avete su Facebook. E a quante volte avete usato quello spazio per maledire un ritardo sui treni, magnificare un ristorante, dire la vostra su un politico - o sul capo. Per capire quel che ha fatto il New York Times si parte da qui: dal microfono (spesso un megafono) di cui la Rete ha dotato ognuno di noi, trasformandosi in un incrocio tra la biblioteca di Babele e lo Speaker’s corner. Bene: ma cos’ha fatto, il Times? Breve nota di contesto: il quotidiano più importante del mondo sta mostrando che cosa significhi avere successo online. Due dati: 2.470.000 abbonati digitali, e l’obiettivo di 800 milioni di dollari di ricavi in quest’area molto più vicino del previsto. I social giocano una parte fondamentale. Così il 13 ottobre, smentendo una lunga tradizione, la direzione ha trasmesso alla redazione le nuove norme di comportamento su Facebook, Twitter e simili. Al posto del mitico “don’t be stupid” (Liz Heron, 2012), i reporter del Times si ritrovano con 16 comandamenti, cinque domande e tre dubbi finali: un manualetto. Che c’è scritto? Questo: «Nei post, non esprimete opinioni di parte, non date appoggio a candidati, non fate commenti offensivi o qualunque altra cosa danneggi la reputazione giornalistica del Times. Tutta la vostra attività social rientra in queste linee guida: tutto ciò che si fa lì è in qualche modo pubblico, e tutto ciò che facciamo in pubblico può essere associato al Times. Non entrate in gruppi segreti, non
registratevi per eventi di partito, trattate chi vi critica con rispetto. E se fate un errore, ammettetelo». Ci sono anche altre norme, tra il para-aziendalista (niente scoop sui social: in fondo, a pagarvi è il giornale) e il para-Totò (niente lamentele con i servizi clienti: suonerebbero come un “lei non sa chi sono io”). Il cuore di queste norme, però, sta nei tre dubbi finali di Maggie Haberman, giornalista del Times e superstar dei social: «Prima di postare, chiediti: è una cosa che dev’essere detta? Da te? Ora? Se la risposta a una sola di queste tre domande è no: fermati». L’obiettivo è chiaro: impedire che la credibilità (del giornale) sia messa a rischio dall’irresistibile tentazione (dei giornalisti) di trasformarsi in editorialisti da social.
PERCHÉ ORA? Altrettanto chiaro: perché all’inquilino della Casa Bianca basta un tweet di un giornalista per accusare tutti i media di essere un plotone d’esecuzione. Norme giuste, o eccesso di zelo? Un indizio arriva dalle reazioni che il decalogo ha scatenato. C’è chi lo ritiene un bavaglio («Non prendere parte su Trump è inaccettabile») e chi lo reputa inutile («Voi, imparziali? Chi ci crede?»). Altri, invece, colgono due punti essenziali: la disputa territoriale (di chi è, il tuo profilo sui social, se sei una persona pubblica?) e quella filosofica (cos’è, e cosa non è, un’opinione politica?). Sullo sfondo c’è il tema, enorme, dello scontro tra le libertà personali, in secolare espansione, e il ruolo di organizzazioni mai come ora rese traballanti da un’onnipervasiva disintermediazione. Un esempio: che succede se un politico posta – tra un like e una foto al mare – un’assoluta idiozia? Semplice: a essere chiamato in causa è il suo partito, l’amministrazione in cui lavora,
il ministero di cui è titolare.
FUNZIONANO, REGOLAMENTI del genere? Per quanto ben fatti (e quello del Times lo è), le probabilità sono poche: sottoporre a norme una materia del genere non chiude, ma apre questioni. Sono utili, però: specie se riescono a indurre in riflessione prima di postare (tutti, non solo i reporter). Di chi sono, gli spazi dove state scrivendo? Sicuri di voler dire a tutti quel che state per dire? Siete consapevoli delle possibili conseguenze? La marea continuerà: è il bello, in fondo, di un sistema che ha esteso i confini delle possibilità. Riflettere sulla sua potenza non la arresterà: al limite, aiuterà a fare meno sciocchezze. Quanto ai giornalisti, la regola aurea resta quella del compianto David Carr – guarda un po’, anche lui del Times: «Twittate meno. Concentratevi su chi vi sta davanti. Giocare significa anche fare movimento senza palla».