IRAN IN LISTA D’ATTESA
Nel 1998 una partita diventò il simbolo del nuovo corso. Un inviato del Corriere ricorda quei giorni a Teheran e riflette sulla Rivoluzione islamica del 1979. Ancora oggi molti intellettuali sono in esilio, troppi oppositori in carcere. Ma la riconferma d
L’elezione del presidente moderato Rouhani ha riportato nel Paese una speranza di cambiamento
ÈIL 21 GIUGNO 1998: «Estili /Mahdavikia / Ghareman - Ghareman», voi due campioni dei gol siete eroi, eroi. Ho ancora nelle orecchie quelle urla di uomini e di donne, di vecchi e di bambini, persino di ciechi che alzano il bastone bianco in segno di vittoria. È il 21 giugno 1998, mi trovo per la prima volta a Teheran nel cuore della centralissima piazza Vanak, impazzita, come tutto il traffico della città sotto una indimenticabile notte stellata. Mi ritrovo lì per un improvviso incarico dell’allora vicedirettore del Corriere della Sera Carlo Verdelli, che ha da poco lasciato la direzione di Sette: ha deciso di mandare a Teheran qualcuno che non capisca assolutamente nulla di calcio proprio per raccontare (senza retrogusti pallonari) l’atmosfera della prima grande partita Usa-Iran a Lione per i Mondiali di quell’anno. Un confronto tra due universi contrapposti, sempre a un passo dalla guerra, pronti a chiamarsi Satana uno con l’altro. Ma quella notte, quando l’Iran batte gli Stati Uniti 2 a 1, non c’è odio né aria di guerra. Solo felicità di popolo mista all’evidente euforia di un Iran che si ritrova al centro dell’attenzione di mezzo mondo per quel confronto sportivo con l’Amrika vent’anni dopo la Crisi
degli ostaggi, ovvero il lungo sequestro dal 4 novembre 1979 al gennaio 1981 di 52 dipendenti dell’Ambasciata Usa a Teheran da parte degli studenti seguaci della linea dell’Imam. Vent’anni di odio, di accuse, di spionaggi e di contrapposizioni. Subirò a lungo il fascino dell’Iran, tornerò quasi ogni anno fino al 2005. Un amore in realtà mai finito. Quel 21 giugno 1998 sembra tutto lontano. È anche il prodotto della prima vera presidenza riformista, affidata a Mohammad Khatami dal maggio 1997 all’agosto 2005. Proprio Khatami raccomanda, in quei giorni, di non confondere i piani: è calcio, non politica, ci vuole fair play. E così quella notte non c’è nessuno slogan contro il Grande Satana ma solo una immensa festa di popolo che finisce soltanto all’alba. Poche ore prima, a Lione, le due squadre si sono fatte fotografare abbracciate, con i giocatori trasformati in un’unica squadra a maglie alternate, rosse per l’Iran e bianche per gli Usa. Un’immagine irripetibile, una profezia di possibile normalizzazione.
QUEL MIRACOLO diplomatico-sportivo del giugno 1998 arriva a quasi vent’anni di distanza dalla caduta di Muhammad Reza Shah e del suo sogno filo-occidentale e soprattutto filo-americano che ancora oggi traspare dai grattacieli costruiti a Teheran negli anni 70. La crisi economica, la disoccupazione, l’ inflazione, avevano polverizzato le speranze degli iraniani in quell’uomo che, appena nel 1971, era stato il protagonista di una immensa celebrazione dei 2.500 anni dell’Impero Persiano a Persepoli, di fronte ai sovrani e ai potenti di mezzo
mondo: la prova di quanto potesse pesare, all’alba degli anni 70, un Paese ricchissimo di petrolio e deciso ad entrare nell’orbita dei Grandi dell’Occidente. Appena pochi anni dopo, proteste e cortei (e la manifestazione finale del 13 gennaio 1979 con due milioni in piazza) lo costrinsero a fuggire il 16 gennaio, lasciando dietro di sé un bilancio di 100mila incarcerazioni politiche e circa 5000 morti in circostanze misteriose. E soprattutto lasciando il posto all’Ayatollah Ruhollah Khomeini, in esilio dal 1963 per aver fomentato e ideato un complotto contro lo Shah. Tutto avvenne, per la prima volta nella storia dell’umanità, in diretta televisiva: un autentico contrappasso per la nascita di un regime teocratico di stampo sciita. Infatti lo sciismo diventò una ideologia politica, cioè la Rivoluzione Islamica Iraniana, alimentando una delle nuove teorie terzomondiste del secondo Novecen- to, in aperta contrapposizione con quelle grandi potenze mondiali e con quei grandi gruppi industriali iraniani e internazionali con sede in Iran, storici alleati (e spesso complici) dello Shah. È nel terreno culturale, religioso e politico che affondano le radici dell’Iran, così come lo conosciamo dall’1 febbraio 1979, giorno del ritorno di Khomeini a Teheran, accolto da tre milioni di iraniani entusiasti e inconsapevoli di quanto, e come, sarebbe cambiata per sempre la loro vita sociale, culturale, religiosa, soprattutto politica.
MA TORNIAMO alla fine degli anni 90, alla prima presidenza progressista di Khatami. È la stagione in cui (luglio 1999) Zahra Rahnavard, pittrice e scultrice, scrittrice e saggista, è la rettrice dell’unica università tutta al femminile di Teheran, la Alzahra, con 3.600 iscritte a diverse facoltà, e mi dice: «L’anno
prossimo voglio che le ragazze indossino veli con tutti i colori del mondo, mi piacerebbe che si ispirassero a Miró, l’Islam non ama il nero che è un colore legato alla dinastica Cagiara… Io dico che la vera forma dell’Islam, quella più pura, garantisce la massima libertà alle donne». Sono sempre gli anni in cui (stavolta 2004) il premio Nobel Shirin Ebadi (premiata nel 2003) lavora ancora a Teheran nel suo umido studio in un seminterrato nel centro-nord della città difendendo i diritti delle donne, orgogliosa del fatto – me lo dichiara in un’intervista del 26 gennaio di quell’anno - che «il 63% di iscrizioni alle nostre università sono di ragazze; ormai sono centinaia le donne impegnate per i diritti, e tra poco diranno a questi uomini sempre più ignoranti: ma cosa state facendo?».
ED È ANCORA LA STAGIONE in cui il mitico Ayatollah Ali Montazeri, ex delfino di Khatami, relegato nella città santa di Qom dopo sei anni di arresti domiciliari a causa delle sue simpatie per la sinistra radicale, può tranquillamente dichiararmi in un’intervista del 31 gennaio 2004: «Oggi, invece di libere elezioni, abbiamo una selezione da parte di una delle due fazioni in lizza; tutto ciò è illegale, anticostituzionale. Se il popolo è deluso, non crederà più alla Rivoluzione né all’Islam». Per capire quanto i tempi siano cam- biati, basterà sapere che oggi l’intelligente ed estroversa Zahra Rahnavard è agli arresti domiciliari ormai dal 2011 con suo marito, l’ex primo ministro (1981-1989) Mir-Hossein Moussavi, entrambi esponenti di punta del Movimento Verde iraniano, colpevoli di aver manifestato a favore delle Primavere Arabe. Shirin Ebadi vive in esilio a Londra dal 2009, cioè da quando la polizia fece irruzione nel suo studio, sequestrò il suo Premio Nobel, picchiò suo marito mentre lei era proprio nella capitale britannica per sfuggire a un arresto per evasione fiscale: il regime voleva 410mila dollari di tasse arretrate a causa del Nobel, eppure la legge fiscale iraniana prevede che i premi siano esentasse. In esilio sono anche
innumerevoli intellettuali, docenti universitari, imprenditori che in Iran rischierebbero lunghi arresti e detenzioni in oscure prigioni. Dagli anni che ho raccontato è cambiato molto, in Iran. Dal 3 agosto 2005 al 3 agosto 2013 c’è stata la lunga, plumbea presidenza ultraconservatrice di Mahmoud Ahmadinejad, che in molti settori ha ostentatamente riportato indietro l’orologio della Storia, in perfetto allineamento con la Suprema Guida Ali Khamenei, l’autentico padrone dell’Iran di oggi, massimo esponente del clero sciita ed erede di Khomeini, come certificano le migliaia di immagini sparse per le vie dell’immenso Paese. Dal 3 agosto 2013 è arrivato però alla presidenza il moderato-progressista Hassan Rouhani, confermato nel maggio scorso per altri quattro anni. Uomo attento, capace di ammettere l’esistenza dell’Olocausto e ottimo diplomatico, al punto di stabilire un’intesa sul controverso terreno del nucleare nel 2015 con i Paesi del 5+1 (cioè i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con potere di veto – Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina – più la Germania). Donald Trump, è cronaca recentissima, ha rimesso tutto in discussione appena un mese fa attaccando duramente Teheran e sostenendo che l’intesa cara a Barack Obama è saltata: ma si è scontrato con la posizione degli altri cinque, decisi a non buttare tutto nella discarica della Storia. Le belle foto che pubblichiamo raccontano l’Iran di oggi: pezzi di contemporaneità accanto ai chador obbligatori per le donne. Gli onnipresenti Pasdaran della Rivoluzione, nelle loro tute mimetiche. L’immenso cimitero di Behesht-e-Zahra, con le migliaia di vittime della lunga guerra combattuta dal 1980 al 1988 contro l’Iraq. I fast food e gli scorci di una realtà rurale ancora vivissima. In questi casi si dice: tra luci e ombre. Mai espressione fu meno banale come in questo caso, per intuire l’Iran del 2017.