INTERVISTA CLASSICA - QUESTO NON LO SCRIVA
Mario Segni: «Ma le pare realistico che Berlusconi accettasse di non essere il capo?»
POCHI HANNO INCARNATO lo spirito di rinnovamento della Seconda Repubblica come Mario Segni. Deputato della Democrazia Cristiana dal ’76, figlio di Antonio, presidente della Repubblica (1962-1964), è stato il promotore dei due referendum che all’inizio degli Anni 90 hanno scardinato il sistema elettorale proporzionale in vigore dal Dopoguerra: quello che aveva visto decenni di governi fatti di precarie alleanze fra i partiti, per lo più intorno alla sua Dc. Dopo il passaggio a un sistema maggioritario, ha lasciato il partito – c’è chi dice l’abbia ammazzato proprio lui, ne parleremo – ha avviato nuovi movimenti politici, prima di chiudere con la politica attiva. Un quarto di secolo dopo, la battaglia referendaria esce sconfitta. A casa Segni, nel salotto in cui quella rivoluzione è stata spesso pianificata, accanto a un presepe tradizionale da cui spuntano i nuraghi dell’amata Sardegna, tentiamo con lui un bilancio. Per capire che direzione prenderà l’Italia 2018. A marzo si vota e si torna a un sistema elettorale prevalentemente proporzionale. Lei come la considera: le 12esime elezioni politiche della Prima Repubblica, ricominciando la conta di quelle avvenute tra il 1946 e il 1994? Oppure la numero 7 della Seconda, dal ’94 a oggi? O le prime della Terza Repubblica?
«Io do un’altra interpretazione. In Italia, gli anni che vanno dai Novanta a oggi sono da considerare un periodo di Riforma e Controriforma. Proprio come avvenne alla Chiesa Cattolica con la sua reazione alla dottrina di Martin Lutero». Date simbolo, per l’una e per l’altra? «Simboliche ma anche di sostanza: la prima è il 18 aprile del ’93, la seconda è la legge elettorale appena approvata». Rosatellum Bis, 3 novembre 2017. «L’inizio e la fine della rivoluzione istituzionale. Il periodo tra il ’90 e il ’94 ha rappresentato una delle svolte principali della storia italiana. Certo, all’interno di un fenomeno mondiale, con l’inizio del dopo comunismo. Ma per il nostro Paese tutto è riconducibile al tentativo di creare un assetto istituzionale diverso, e quindi un sistema politico nuovo, iniziato con il primo referendum ( 1991, abolizione delle preferenze, ndr). Dobbiamo dire con franchezza, e con amarezza, che questa fase è finita». Torniamo indietro di 25 anni. Lei di questa rivoluzione fu il primo motore. Come aveva cominciato a pensarla? «Ho sempre creduto che il grande problema italiano – la lentezza, l’inadeguatezza ad affrontare i problemi di un Paese moderno – nascesse dal sistema istituzionale. Negli Anni 60 avevamo l’esempio della Francia: era uscita da una crisi drammatica, era tornata al rango di grande Paese grazie a una riforma istituzionale, quella gollista ( con la Quinta Repubblica nata nel ’58 e il superamento del parla- mentarismo, ndr). Quando Marco Pannella fondò la Lega per il Collegio Uninominale, mi dissi: se col fiuto che lo contraddistingue si lancia in un’avventura di questo genere, è cambiato qualcosa. E l’impossibile diventava possibile». Che fece? «Mi iscrissi alla Lega per il Collegio Uninominale di Pannella. Anzi, ne diventai tesoriere! Litigammo sempre ferocemente con Pannella, ma da lì nacque un gruppetto di persone eterogeneo che però si trovarono in sintonia su una serie di iniziative. A cominciare da esponenti del Partito Radicale». Compagni di viaggio insoliti. «Li conoscevo poco, anche se ero già in Parlamento da un pezzo. Nell’estate dell’86 andavamo insieme a pranzo tutti i giorni. Politicamente la pensavamo in modo diverso, ma era un mondo sincero, che credeva nelle cose che diceva. Mi sembrò di rivivere i miei anni giovanili nell’Azione Cattolica. C’erano poi alcuni socialisti interessanti: Rino Formica veniva spesso alle riunioni, Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Alcuni elementi del Partito Comunista: Paolo Barile, Augusto Barbera. C’era l’interesse di democristiani come Nino Andreatta. Poi arrivò la rottura con Pannella. La causa? L’elezione di Cicciolina». Ilona Staller, la pornostar eletta fra i radicali nell’87. «Fu un fatto clamoroso. Non potevamo vederla arrivare improvvisamente alla riunioni... L’unico modo per tenere
VITTORIE La campagna per il referendum sul maggioritario del 1993. Alla destra di Segni, Achille Occhetto
fuori Cicciolina era escludere Pannella. Rompemmo e lui se la prese, com’era sua abitudine. Ma con Marco i rapporti erano sempre di amore e odio. Mi diceva sempre: “Tu in realtà sei un criptocomunista”!». Il ritorno al proporzionale, ma anche il fallimento del referendum di Matteo Renzi un anno fa. In Italia le riforme istituzionali non passano. Si è spiegato il perché? «In realtà la riforma noi la facemmo, anche se incompleta. Non solo vincemmo il referendum in modo strepitoso, ma eravamo giunti a un risultato incredibile: diffondere una cultura maggioritaria rendendo la società italiana consapevole del cuore del problema della governabilità. Facemmo però un errore: credere che la forza del referendum avrebbe impresso all’Italia un corso immodificabile». Cosa provocò l’errore? «Sottovalutammo la forza dell’opposizione della classe politica, che iniziò subito a combattere una serie di battaglie su singoli punti. In Parlamento fummo sempre battuti». C’è sempre una sconfitta decisiva, in ogni guerra. «A posteriori la più importante fu il Mattarellum. Un vero tradimento». La legge elettorale approvata ad agosto ’93, dopo il referendum, che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Introduceva un sistema per il 75% dei seggi parlamentari maggioritario e per il 25% proporzionale. «Fu un tradimento dell’indicazione del presidente della Repubblica Scalfaro, che aveva detto che il Parlamento doveva scrivere la legge “sotto dettatura”, cioè scritta dal popolo col referendum. Ma il referendum introduceva il collegio uninominale invece furono restaurate le liste di partito». Chi sono stati i principali nemici del maggioritario? «Gran parte della sinistra Dc, compreso Mattarella, è sempre stata il bastione del proporzionale. Nello stesso tempo, la cultura del Partito Comunista incarnata da Massimo D’Alema». Vi rendeste conto di cosa significava il Mattarellum? «Della sua gravità, solo a posteriori». Con Mattarella ne ha mai discusso? «No. Abbiamo un rapporto cordiale ma non stretto. Ma ho sempre saputo come la pensa». Paradossalmente, quando il Parlamento ha cominciato a dibattere il Rosatellum bis, lei ha difeso proprio il Mattarellum… «Di fronte all’altra ipotesi... Bisogna però ricordare che dopo il ’93 ci furono successive vittorie referendarie. Se vogliamo disegnare un grafico, l’anno di massima espansione del movimento referendario fu il ’99, quando perdemmo la consultazione per eliminare la quota proporzionale mancando per un soffio il quorum. Ma lì ci rendemmo conto che cambiava il clima. Mi è rimasto impresso Franco Marini». Altro esponente della sinistra Dc, futuro presidente del Senato. «Il giorno dopo il referendum disse: “È cambiato il clima, è cambiata l’Italia. Iniziamo la battaglia per tornare al proporzionale”. Emblematico. In questa storia, però, bisogna aggiungere ancora un momento importantissimo, in cui io non c’entro niente: ciò che accade oggi non sarebbe avvenuto se Renzi non avesse portato avanti il suo, di referendum: c’erano molti errori ma lo spirito era di continuazione della riforma». Il “no” del 2016 ha aperto alla restaurazione finale? «Quando fu eletto segretario del Pd tifavo per lui. Ma i suoi sbagli ci sono costati cari. Avrebbe dovuto fare subito la riforma elettorale e poi andare alle elezioni. Il suo errore è stato aver aspettato due anni durante i quali, nonostante molti successi, è iniziato l’inevitabile logoramento di chi sta al potere. Una riforma che aumentava i poteri del premier, fatta da un premier accentratore come è lui, oltre alla personalizzazione della campagna, ha suscitato fatalmente la reazione contraria». Cosa significa ora tornare al proporzionale? Rispolvereremo il vecchio linguaggio della politica: pentapartito, consultazioni, convergenze parallele…? «No, significa tornare al sistema dei partiti ma in una situazione di crisi irreversibile dei partiti. Che rende complicatissima la governabilità». C’è ancora chi dice: “Segni avrebbe dovuto prendere le redini della situazione nel ’93, diventare lui, premier”». Ha qualche rimpianto?
«Ne ho tanti. Mi sono chiesto molte volte cosa ho sbagliato, perché sbagli ci sono stati. Ce n’è uno che ho chiaro, che ho capito anni dopo. Queste cose si capiscono sempre tardi, purtroppo. Fu il rifiutare di entrare al governo, quando mi fu offerto prima da Prodi e poi da Ciampi». Quando? «Subito dopo il referendum del 1993. Era domenica. Prodi mi telefona verso le cinque: “Sto venendo a Roma, devo vederti assolutamente”. Arriva, mi spiega: “Scalfaro ha detto di dirti che stasera mi dà l’incarico, ma a condizione che tu accetti di far parte della squadra. Entro 10 minuti, però, dobbiamo decidere”. Mi appariva un tentativo che rischiava di andare a sbattere, non sapendo nemmeno se ci fossero i numeri. E avrei coinvolto tutto il movimento referendario. Rifiuto. Scalfaro dice di no. La sera stessa Ciampi, incaricato, mi chiede la stessa cosa! Certo, Ciampi veniva da un ruolo istituzionale… Però mi sembrava brutto accettare, anche per i miei rapporti personali con loro». Perché lo considera un errore? «Da dentro il governo, in quel momento, con la forza della vittoria referendaria, avrei impedito la legge elettorale. Avevo sopravvalutato le nostre forze. Augusto Barbera, dopo la vittoria del suo partito alle amministrative, mi raccontò un aneddoto illuminante: “I funzionari sono arrabbiati: il segretario di una certa città ha capito che se vuole conservare il posto di sindaco non può candidarsi lui ma deve trovare il noto ingegnere; l’aspirante senatore deve lasciare il posto al rettore…”. Il politologo francese Mau- rice Duverger lo spiega bene ne La nostalgia dell’impotenza: il mondo dei professionisti della politica è sempre per il proporzionale, perché il maggioritario sposta il cuore del potere dall’interno dei partiti alla comunità». C’è chi si domanda ancora perché lei non abbia accettato la proposta di Berlusconi di diventare leader del suo – allora futuro – partito. «In realtà, Silvio non mi fece mai la proposta. Né io volevo diventare suo socio. Era il ’93: ci trovammo a pranzo a casa di Gianni Letta, di cui sono amico. C’era anche Fedele Confalonieri. Ma le pare realistico che una persona come Berlusconi potesse accettare di non essere lui, il capo?». L’Italia è divisa in tre. C’è il Pd di Renzi e la sinistra di Grasso, c’è il centrodestra di Berlusconi-Salvini-Meloni e ci sono i 5 Stelle. Paese ingovernabile? «Mi pare sicuro che andiamo verso una politica sempre più instabile e sempre meno governante». Nella prima Repubblica, il perno di tutto era la Dc. «La gente in questi anni dice: “ah che bella la Democrazia Cristiana”… Ma hanno in testa De Gasperi, si sono dimenticati che negli anni 70 e 80 la Dc fu coinvolta nell’opera di corruzione che avanzò nel Paese». L’hanno accusata di essere l’assassino del suo partito. «Da una parte è un’accusa ingiusta, dall’altro è un complimento. La Dc era inevitabilmente votata alla fine: si reggeva su un’Italia diversa, con la Chiesa dominante in tante parti della società e la presenza del pericolo comunista mondiale. Ma anche il Partito Comunista, mai uscito
BATTAGLIE Mario Segni davanti alla “Bocca della verità”, a Roma, nel 2009. Accanto a lui, un uomo con la maschera del ministro Calderoli, autore della legge elettorale chiamata Porcellum
dallo statalismo, era segnato. Quel tipo di organizzazione di partito non poteva più reggere in un Paese in cui ormai esplodeva l’individualismo e non esistevano più le masse». Il rischio dell’ingovernabilità non spaventa più. Non ne abbiamo più memoria? «Perché ancora non l’abbiamo vista». Secondo i sondaggi, la battaglia tra D’Alema e Renzi finirà con la sconfitta del centrosinistra. Chi può incassare qualcosa dal ritorno al proporzionale? «Credo che alla fine di questo ci sia un desiderio di vendetta, che probabilmente anche di fronte a sé stessi mascherano con l’idea di far risorgere una certa sinistra. La sinistra che vogliono fare risorgere può anche nascere, ma minoritaria, perdente. Contemporaneamente, in questo sistema, possono crearsi situazioni in cui piccole organizzazioni diventano determinanti. In passato abbiamo visto il repubblicano Giovanni Spadolini presidente del Consiglio con il 3% del suo partito. Che poi era la Quarta Repubblica francese, in cui ogni sei mesi cambiava il governo». Lei chi voterà? «Cercherò di capire chi ha maggiori capacità di farci restare in Europa». Come vede Renzi? «Si arrabbierà leggendo, ma io credo che abbia fatto male a non ritirarsi subito, o comunque ad assumere un ruolo distaccato. Renzi si era contraddistinto, soprattutto in un primo momento, per il dato caratteriale della velocità rispetto alla macchinosità della politica. Dal punto di vista politico, con il referendum aveva proposto una strada per il proseguimento della riforma. Ma questa è una scommessa nella quale o si vince o si perde. Invece, dopo aver propagandato per un anno la riforma, ora è il capo di un partito che festeggia la boiata della nuova legge elettorale. Questo lo porta a una continua mortificazione oggettiva». Berlusconi è entrato in politica all’inizio della Riforma. È ancora lì. «È un fenomeno della natura. Detto questo, considero Berlusconi come uno dei responsabili dei disastri italiani, compresa la vittoria della Controriforma: per la mancata riforma liberale, per il messaggio che ha continuamente mandato – con il conflitto di interessi – di sfregio della legge, e per il Porcellum ( legge elettorale del 2005, proporzionale con premio di maggioranza, ndr) fatto dal suo governo: altra data simbolica. Può Silvio giocare il ruolo di equilibrio in una coalizione vincente nonostante difetti giganteschi, tra cui l’antieuropeismo di Salvini? La storia e le vie della vita sono imprevedibili. Ma mi pare che questo sia davvero un peccato di ottimismo». Bossi invitò gli elettori ad andare al mare invece di votare il referendum del ’91. Quanto è diverso da Salvini? «Bossi era un barbaro. Però con la caratteristica, se vogliamo anche positiva, dei barbari che è la spontaneità. Attenzione, non la sincerità… Salvini mi sembra più manovriero e quindi più adatto a questi tempi. Anche se non capisco bene la sua posizione internazionale: non mi pare che il suo elettorato abbia interesse a rompere con l’Europa per cercare le carezze di Putin. Il costruttore padano o l’imprenditore veneto sanno bene con chi fanno affari». Ha mai incontrato di persona Beppe Grillo? E Di Maio? «Nessuno dei due. Anche se ci fu un’estate in cui Grillo venne a Stintino: ormeggiò la barca in un porticciolo in cui anch’io porto la mia ad agosto. Ricordo che fu causa di una serie di feroci litigate con tutto il porto.... Pippo Baudo, di cui sono buon amico e lo conosce bene, anni fa mi disse: “Grillo e i suoi mandano affa tutti, però prima o poi Grillo ci manderà anche i 5 Stelle. Era abituato a guadagnare milioni di euro all’anno, con i suoi spettacoli, a girare l’Italia”. Credo che la decisione singolare di allontanarsi nel momento in cui potrebbe andare al governo sia dovuta al desiderio di riacquistare la sua libertà. In politica, scelte personali, desideri e delusioni hanno grande peso». Il proporzionale e i tre poli attuali rendono improbabile la vittoria di un partito. Alla fine un governo verrà fuori da qualche coalizione? O si tornerà al voto? «Dal governo Monti incaricato dal presidente Napolitano nel 2011 viviamo in una situazione di alterazione della normale regola politica, con governi sempre dettati dal Presidente. Abbiamo dato al Capo dello Stato un ruolo diverso, che non è stato esercitato solo in quella vicenda eccezionale, ma perennemente con l’inevitabile nascita di coalizioni forzate. Ciò ha dato molto spazio ai 5 Stelle, che si sono ritrovati a essere l’unica voce fuori dal coro. Io non credo che questo sia più possibile, né che Mattarella giocherà ancora questo ruolo. Insomma il pericolo di rivotare a luglio o a ottobre, c’è».
«Berlusconi può ora giocare un ruolo di equilibrio nella coalizione? Mi sembra molto ottimistico»