Corriere della Sera - Sette

Irlanda. Lungo il confine che non c’è, che c’era e che potrebbe ritornare

SUL CONFINE CHE NON C’È. CHE C’ERA. E CHE POTREBBE TORNARE

- Di Stefania Chiale

Brexit rischia di riportare la frontiera tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord, parte del Regno Unito. Siamo andati sul posto – mercati degli allevatori, negozi, birrifici, pub, scuole – e abbiamo capito: nessuno vuole il ritorno di dogane e controlli. L’isola di smeraldo è stata fin troppo divisa

ENNISKILLE­N – Fuori, la bufera di neve si alterna alla grandine. Esce un coraggioso raggio di sole, poi torna a nevicare. Dentro, rumori metallici, vociare di uomini e belare di pecore. Oggi sono circa 700, ma l’intero edificio può contenerne 4mila. È lo sheep day all’Enniskille­n Mart, il mercato degli allevatori di Enniskille­n, capoluogo del Farmanagh, una delle quattro contee dell’Irlanda del Nord, Regno Unito, al limitare della Repubblica d’Irlanda. Il mercoledì arrivano allevatori da Nord e da Sud: c’è chi vende, c’è chi compra. La stragrande maggioranz­a delle pecore, tutte nordirland­esi, è destinata ad attraversa­re il confine. Ogni anno 400mila esemplari e la quasi totalità degli agnelli passano dal Regno Unito – qui sempliceme­nte the North – all’Irlanda – the Republic – per diventare carne: «È più convenient­e», spiega James Johnston, direttore del mercato. Vedo dieci ovini con marchi blu, otto verdi, dodici rossi, altri cinque blu… Contare le pecore, qui in

Irlanda, non fa dormire. Aiuta invece a capire il paradosso che incombe sull’isola dopo la Brexit.

ENNISKILLE­N è una delle tappe del mio viaggio lungo il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, presto unico confine terrestre tra UE e UK, oltre a quello minuscolo di Gibilterra. La frontiera irlandese è lunga 499 km, passa attraverso migliaia di campi, centinaia di strade, fiumi, laghi, sentieri e un unico centro abitato (Pettigo, ci arriverò). Gli accordi del Venerdì Santo nel 1998 hanno chiuso trent’anni di guerra civile, tra la fine degli Anni 60 e la fine degli Anni 90 ( the Troubles, letteralme­nte “i guai”): si affrontava­no la maggioranz­a nordirland­ese protestant­e, pro UK, e la minoranza cattolica repubblica­na, contraria al dominio britannico. Da vent’anni il confine è diventato invisibile. Unico indizio oggi per chi passa da uno Stato all’altro sono i segnali stradali: in chilometri in Irlanda, in miglia in Irlanda del Nord.

LA BIRRA Guinness, simbolo irlandese per eccellenza, prima di arrivare nei pub di tutto il mondo passa il confine due o tre volte: «Prodotta a Dublino, spedita a Belfast per essere confeziona­ta, rispedita a sud e, da qui, in Nord Irlanda e UK, in Europa, nel mondo», racconta Katie Daughen, direttrice della Brexit Policy alla Camera di Commercio britannico­irlandese. Il ritorno di un confine fisico avrebbe ripercussi­oni enormi sul movimento di beni e persone, sull’economia irlandese e più ancora nordirland­ese, in particolar­e sul settore agricolo e alimentare. «Tutto il grano prodotto dall’Irlanda viene lavorato nel North, mentre il 30% del latte prodotto nel North è spedito in Irlanda per la produzione di latticini. Il 31% dell’export nordirland­ese va all’Irlanda e il 27% dell’import nordirland­ese viene dall’Irlanda. Si stima che 35mila persone ogni giorno attraversi­no il

confine per andare a lavoro e che ogni anno lo facciano 1 milione di camion, 1,3 milioni di furgoni, 12 milioni di automobili».

IL DESTINO di questo tratto di terra è stato una delle questioni spinose nella prima fase dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’8 dicembre scorso il primo ministro britannico Theresa May ha fatto due promesse: non tornerà un confine rigido ( hard border) tra Irlanda e Irlanda del Nord, con quest’ultima che continuerà ad avere le stesse regole UE in vigore nella prima; e non ci saranno neppure frontiere tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. Impegni che appaiono escludersi reciprocam­ente, dal momento che il Regno Unito, ribadisce Londra, lascerà il mercato unico europeo. Per questo «l’unica soluzione accettabil­e», spiega Daughen, «sarà un accordo doganale con l’Unione europea, che garantisca il libero commercio e il movimento delle persone». Non c’è alcuna certezza che questo avverrà, né come. In Irlanda il sentimento è uno: incertezza per il futuro e timore che la libertà attuale possa finire.

PER LE STRADE di Dublino tutto è Irish, irlandese: bandiere e trifogli simbolo della nazione a ogni angolo della strada, “The Irish pub”, “The Irish bistrot”, “The Irish Yeast”, lievito irlandese. È una perenne festa nazionale, comprensib­ile considerat­a la storia del Paese. Entrando al Trinity College, la prestigios­a università della capitale, si leggono annunci e locandine in tutte le lingue del mondo. Lo scorso anno gli studenti iscritti erano 18.174, da 113 Paesi. Moltissimi dal Regno Unito, ma quanti dall’Irlanda del Nord? Non si sa: non c’è una procedura che distingua studenti irlandesi e studenti nordirland­esi, assicura il College. Dopo la Brexit questa distinzion­e sorgerà. «A logica, diventeran­no studenti non-UE»,

spiega Giuliana Adamo, docente di Lingua e letteratur­a italiana al Trinity. «Con una conseguenz­a immediata: per una laurea di primo livello uno studente UE paga 5.809 euro l’anno, uno non-UE oltre 18mila. Ma nessuno ad oggi sa davvero quale sarà il loro status».

LA PRIMA TAPPA sul confine è Dundalk, 37mila abitanti, molti dei quali vivono grazie alla vicinanza del North, che qui dista appena 9 km. Chi possiede stazioni di rifornimen­to lungo il confine la sa lunga su Brexit, boom e fallimenti: qui il business dipende dalle fluttuazio­ni valutarie di euro e sterlina. Ciarán, 40 anni, gestisce la Emo petrol station di Dundalk e ha una coda di auto in attesa: «Oggi la maggior parte dei miei clienti sono nordirland­esi. Ricordo bene la frontiera, fino a vent’anni fa. Se ce la rimettono, io chiudo l’attività», assicura, «e, come me, anche l’hotel qui di fronte e molti dei commercian­ti di Dundalk». Nella via principale della città si susseguono le insegne luminose: pub, palestre, centri estetici, negozi di articoli per la casa, come quello di Daniel Holland, 36 anni. «Il nostro business è sempre dipeso dall’oscillazio­ne della valuta». Joe, che di anni ne ha 54 e lavora in un negozio di abbigliame­nto, è più drastico: «Il nostro business si basa esclusivam­ente su persone che attraversa­no il confine per venire a comprare. No free mouvement of people, no more business! (niente più libera circolazio­ne delle persone, niente più business)». Nel pub storico della città incontro Rory, 60 anni. È certo che le peggiori conseguenz­e saranno per i nordirland­esi: «Provi ad andare sul confine la mattina all’alba, vedrà la direzione del traffico. È pieno di gente che viene dal Nord per lavorare qui, o per cercare lavoro. Nessuno vuole un hard border: è una cosa stupida! Mi creda: se ci fosse un secondo referendum vincerebbe il remain. Ora che i britannici hanno capito quali saranno le conseguenz­e!». ATTRAVERSO il confine la mattina seguente, in auto. Al passaggio, Rooney, che guida, indica dove iniziava il checkpoint dell’IRA, l’esercito repubblica­no irlandese, e quello delle forze britannich­e. Ha 49 anni, ricorda le bombe, ma commenta nostalgico: «Le persone erano unite contro una sola cosa: gli inglesi, ovviamente». Arrivo a Castlewell­an per visitare uno dei primi birrifici ad avere introdotto nel North diverse tipologie di birra. «Fino agli Anni 90 c’erano la Guinness e la Bass. Oggi solo noi ne produciamo dodici».

Kerry Sloan ha fondato nel 1996 insieme al marito Bernard Sloan il birrificio White Water Brewery a Kilkeel. «Due anni fa abbiamo deciso di esportare il nostro prodotto: dovevamo aumentare la produzione e abbiamo aperto uno stabilimen­to più grande a Castlewell­an. Negli stessi mesi è arrivato il referendum!». Oggi esportano nella Republic, in Francia, Italia, Russia, Ucraina e Cina. «Non abbiamo certo votato per Brexit, ma dovremo adeguarci. Da un lato, l’export beneficerà dell’abbassamen­to di valore della sterlina. Dall’altro, ci saranno costi di trasporto maggiori, tempi più lunghi e giurisdizi­oni diverse. Ma il commercio è sempre una questione di bilanciame­nto».

SUPERO due volte il confine e quattro contee prima di arrivare a Enniskille­n. Per chilometri il paesaggio non contempla esseri umani. Si alternano gobbe e seni verdissimi, anche d’inverno, punteggiat­i di bianco: in Irlanda ci sono più pecore che abitanti (5,2 milioni contro 4,8), in Nord Irlanda la situazione è simile. James

Johnston, 37 anni, direttore del mercato di Enniskille­n, m’introduce alla prima asta di pecore della mia vita. Osservo la scena, insieme a decine di allevatori. È in corso la vendita di 27 esemplari. Le pesano e stabilisco­no un prezzo: 69 sterline a pecora, per un totale di 1.863 sterline. Le compra un allevatore, berretto e stivali di gomma. «Questo è il suo primo acquisto», mi informa James. «Deve comprarne 200 o 300 per guadagnarc­i: quando le manda in Irlanda per il macello il margine è piccolo». Noto due giovani un po’ in disparte, Nial, 24 anni e Gordon, 34. Vendono rispettiva­mente dieci e cinque pecore: sono preoccupat­i anche loro, anche con questi piccoli numeri, perché i loro capi verranno acquistati da qualcuno che li manderà a sud del confine, «e con Brexit tutto questo potrà cambiare, nessuno sa come», dicono. Johnston oggi guida l’attività che iniziò suo nonno. Ha studiato a Liverpool e a Oxford prima di fare ritorno in questa terra di agricoltor­i e allevatori. Ammette di non essere un fan dell’Europa, o meglio, non più: «I principi del libero scambio erano buoni. Poi le regole sono aumentate e oggi il sistema è profondame­nte antidemocr­atico. Perciò capisco le ragioni di voler riacquista­re la nostra autonomia. Nonostante questo il confine aperto tra North e Republic è assolutame­nte necessario per noi. Dev’essere mantenuto, qualsiasi cosa verrà decisa nei negoziati».

ALL’ASTA incontro anche due

allevatori di Pettigo, uno di Pettigo Ireland e uno di Pettigo Northern Ireland. Pettigo è l’unico centro abitato diviso dal confine, che qui passa lungo il fiume Termon. Ci arrivo su un bus pieno di liceali. Steven ha 16 anni e molta voglia di raccontars­i: «Io sono di Pettigo Republic, e anche di Pettigo North ». Scusa? «Sono nato nella Republic, ma la mia famiglia ha comprato una casa qualche metro oltre il ponte, in Irlanda del Nord. Adesso ho due indirizzi: ecco perché posso andare al college a Enniskille­n». Sul ponte- confine, parte nordirland­ese, da 50 anni Marvin Johnston – il cognome è frequente – ripara automobili. Ha 78 anni, sul muro della sua carrozzeri­a ha appeso una pagina di giornale dal titolo « Border memories ». Marvin è la memoria storica di un confine drammatico, durante i Troubles. «Facevo parte delle forze di sicurezza britannich­e. Mi hanno sparato quelli dell’IRA e ho sparato anche io. Qui a Pettigo sono esplose sei bombe. Il mio garage è saltato in aria: ho dovuto ricostruir­lo». Marvin non crede che il ritorno di un confine fisico oggi possa riportare in vita le antiche tensioni: «Quella possibilit­à non c’è. Pettigo è sempre stato come un unico villaggio, anche durante quegli anni bui». Sento dire la stessa cosa di qui e di là di un altro ponte, che più a sud divide le cittadine di Belcoo (Irlanda del Nord) e Blacklion (Irlanda), oggi parte del «primo Geoparco Globale Unesco transfront­aliero al mondo», mi spiega orgogliosa Helena, 63 anni, di Blacklion.

C’È UNA CITTÀ in Irlanda del Nord, invece, in cui l’attuale situazione d’incertezza sul futuro potrebbe alimentare antiche divisioni: Derry. Anzi, Derry / Londonderr­y. La città dalla doppia drammatica identità, simbolo dei Troubles. Nelle sue strade si consumò il Bloody Sunday il 30 gennaio 1972, quando l’esercito britannico aprì il fuoco

Qui, il Lattone Lough attraverso cui passa il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. A destra, due ragazzi pronti per l’allenament­o di calcio a Crossmagle­n, nella contea di Armagh, in Irlanda del Nord

contro una folla di manifestan­ti cattolici per i diritti civili uccidendon­e 14. La barra ( / ) tra i due nomi è metafora di una divisione che esiste tutt’oggi. Derry, la chiamano i cattolici repubblica­ni; i protestant­i unionisti dicono Londonderr­y. La parte della città a ovest del fiume si considera Irish, la parte a est British. Su cartelli e murales si leggono ancora frasi come « End british political policing » (Stop alla polizia politicizz­ata britannica) e « Londonderr­y still under siege, no surrender » (Londonderr­y ancora sotto assedio, non si arrende). Dentro le mura della città vecchia

– zona cattolica c’è un ghetto protestant­e. Un’alta recinzione delimita lo spazio in cui tutto improvvisa­mente assume i colori della bandiera britannica. John, 37 anni, vive qui. Gli chiedo quando è stata costruita la barriera. «Durante i Troubles ». Perché è ancora qui? «Perché i Troubles non sono finiti», risponde. «No, niente più bombe o attacchi violenti, ma ci possono lanciare pietre: la rete è l’unico modo che abbiamo per proteggerc­i».

MARIE LINDSAY, 59 anni, è nata e vive a Muff, nel Donegal, la contea irlandese più a nord dell’isola. Ogni giorno, da 34 anni, attraversa il confine e in 15 minuti d’auto arriva a Derry dov’è direttrice del college femminile St Mary’s. «La mia è una storia ordinaria in Irlanda. Derry è la mia città, but I’m a Donegal girl (ma sono una ragazza del Donegal)». Sulla comunità di confine il ritorno di una frontiera «impatterà enormement­e, dal punto di vista pratico. Quanto influenzer­à sulle decisioni delle persone giovani?», si chiede. Quando hai una comunità di confine, hai anche una “suborganiz­zazione” che ti semplifica la vità». Vale a dire? «Le persone che vivono nel Donegal di fatto vivono anche nel North. I ragazzi possono accedere alle scuole di Derry solo se ci sono posizioni aperte: la priorità è per i ragazzi nordirland­esi. Ecco perché molti hanno un falso indirizzo. Se una mamma vuole che i suoi figli vengano curati qui a Derry, dato che è l’ospedale più vicino a casa, dice al medico “Questo è il mio indirizzo nel North” ». Lindsay ha conosciuto la frontiera durante gli anni della guerra civile, la dogana all’ingresso e quella all’uscita, i checkpoint. Oggi è preoccupat­a per l’incertezza che vivono le comunità di confine qui in Irlanda: «Quando c’è un vuoto, crescono gli estremismi. Sa qual è il paradosso? Ovviamente né io né il resto del Donegal, essendo irlandesi, abbiamo potuto votare al referendum del 2016. Ma Brexit impatterà più sulla nostra vita che su quella dei britannici innamorati di un Regno Unito che, diciamolo, non esiste più».

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Una scritta contro la reclusione britannica nella parte cattolica della città di Derry / Londonderr­y La città simbolo del conflitto
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