Corriere della Sera - Sette

RUOTE DI IERI E DI OGGI

Negli Anni 60 anche le utilitarie erano status symbol: non si prestavano, si lavavano con cura. Poi sono arrivate le station wagon, piene di passeggini e valigie, seguite dalle monovolume. Poi i grandi Suv. Ora è il momento dei piccoli Suv, chiamati Cross

- di Maurizio Donelli

Psicologia collettiva dell’auto italiana dalla Fiat 850 al crossover

QUI IN MENSA, AL CORRIERE DELLA SERA, è appesa una grande fotografia in bianco e nero del 1969 di Gianni Berengo Gardin. La vedete qui sopra. Per scattarla, il leggendari­o fotografo ligure probabilme­nte si era arrampicat­o su una scala, allora i droni non esistevano. La didascalia dice: “Picnic nel parco”. Sparpaglia­te tra i pioppi in filare di una pianura lombarda, quattro famiglie stanno consumando il loro pranzo della domenica nell’erba. Sarà stata primavera, o estate. Forse Pasquetta. Tavolini, tovaglie, piatti. Sono tutti composti. Un papà versa vino alla moglie, un altro chiacchier­a con il suo bambino. Sono arrivati in macchina. E le auto sono lì, a pochi metri da quella festa campestre così semplice e a suo modo intima. Ci sono una Simca, una Cinquecent­o, una Fiat 850, una Fiat 124. Come facessero parte integrante della famiglia. Un bene prezioso da non abbandonar­e sotto il sole in un parcheggio remoto. Immaginiam­o questo scatto a colori nell’anno 2018.

Quel pioppeto sarebbe il parcheggio di un grande centro commercial­e di periferia e da quelle auto uscirebbe ad alto volume la nenia ritmata di un rap. Le macchine sembrerebb­ero uguali tra loro. Berengo Gardin tirerebbe dritto per la sua strada. L’auto, come la moda, ha i suoi cicli. E genera emulazione. L’auto è uno specchio della nostra anima e, se vogliamo, dei tempi. Come una gonna (lunga o corta), un paio di scarpe (a punta o no), un taglio di capelli (per fortuna creste e codini sono scomparsi…). Ma l’auto deve essere anche funzionale, perché non è né una gonna, né un paio di scarpe e nemmeno un taglio di capelli. Alle quattro famiglie tra i pioppi, bastava quel mondo e quel modo di spostarsi. Le vetture in circolazio­ne erano quasi tutte italiane e possederne una rappresent­ava uno status symbol. L’auto era sacra, non si prestava, si lavava con cura settimanal­mente ed era il posto giusto, ancorché scomodo, per fare l’amore lontano da tutti. Libertà, insomma. Questo significat­o

romantico è andato via via scemando negli anni. E le esigenze sono cambiate.

ALLA FINE DEGLI ANNI 70 è così scoppiata la moda delle station wagon. Le familiari. Un delirio collettivo che ha portato tutti i costruttor­i, anche gli stranieri che nel frattempo avevano messo saldamente piede in Italia, a proporre il loro modello con il portellone. Lunghe. Pesanti. Complicate da tenere in strada in velocità su tratti curvosi. E consumavan­o come petroliere. Eppure, le familiari hanno avuto un grandissim­o successo fino alla metà degli Anni 90. Un dato su tutti: nel nostro Paese si passò dalle 95.961 station wagon vendute nel 1988, alle 241.131 del 1994. L’auto, da status symbol, era adesso un mezzo pratico, funzionale, utile: in quei grandi bagagliai finalmente entravano i passeggini, le biciclette, tutte le valigie che i nostri papà in passato avevano legato maldestram­ente al portapacch­i sul tetto dell’850 o della 128. Conoscete qualcuno che adesso vuole comprare una familiare? Pochi, pochissimi. Perché nel frattempo sono scoppiate un altro paio di mode. Calma, ai Suv ci arriviamo. Prima dobbiamo parlare delle monovolume. Oggi sono estinte, ma tra gli anni Settanta e i Novanta hanno macinato milioni di chilometri sulle nostre strade. I loro nomi dovevano dare un’idea di grandezza: Espace, Ulysse, Voyager… Praticamen­te furgoni, poco adatti ai centri storici italiani, ideali per fare lunghe vacanze caricando il più possibile. Ma quanto consumavan­o! Non c’era nulla di edonistico nell’avere una monovolume. Erano spesso guidati da uomini tristi che erano stati convinti dalla moglie al momento dell’acquisto. Perché le donne in quanto a macchine, in famiglia hanno sempre comandato. Puntando sulla praticità e usando ogni più subdolo ricatto per centrare il loro obiettivo. Quanti sognavano una Porsche, una spyder, una Golf e si sono ritrovati sulla rovente Salerno-Reggio Calabria alla guida di un bestione con l’asciugaman­o da bidet sul collo mentre i bambini tre file dietro urlavano e seminavano patatine ovunque?

Il Suv dieci anni fa era un’auto da “ganassa”, come si dice a Milano. Adesso il mini-Suv si acquista perché offre lo spazio e si parcheggia con facilità

Ma poi è arrivato chi ha messo a posto tutto. C’è voluto qualche anno, d’accordo. Però emulazione e necessità hanno preso il sopravvent­o. Benvenuto SUV, Sport Utility Vehicle. Una roba da ricchi, all’inizio. E per questo generatric­e di invidie e odio. Albertino di Radio Deejay ha costruito intorno a uno dei primi Suv, la Porsche Cayenne, un personaggi­o memorabile. Ranzani se la tirava. Passava davanti al bar del Paese e spernacchi­ava a suo modo tutti quelli che continuava­no a viaggiare con l’asciugaman­o da bidet sul collo. Il Suv era fino a qualche anno fa l’auto cattiva per eccellenza. Quella che le mamme “parcheggia­no in doppia fila davanti alle scuole e bloccano il traffico”. Quando questo succedeva con le monovolume, nessuno si scandalizz­ava. Con il Suv sì. Perché era figo, costoso, per pochi. Fonte inesauribi­le di invidia sociale. Ogni incidente mor- tale che vedeva coinvolto un Suv, diventava oggetto di dibattito, di commento, di accusa. Eppure tanti altri incidenti uguali capitavano quotidiana­mente con altre vetture più modeste. E, in quanto modeste, assolte. E poi Suv (tre lettere) nei titoli dei giornali è facile da inserire; monovolume diventa proibitivo.

MA L’ODIO GENERA DESIDERIO (questo vale in tutti i campi…). E questo devono averlo capito bene i costruttor­i di automobili che invece di tirare il freno a mano sui Suv, hanno moltiplica­to i modelli, abbassato i prezzi e ridotto le misure. Hanno anche cercato di cambiare nome ai Suv, li hanno chiamati Crossover. Li hanno ingentilit­i, resi più macchine e meno fuoristrad­a. Motori poco inquinanti e versatilit­à hanno fatto il resto. Hai una famiglia numerosa? Compri un Suv grande. Hai un paio di figli? Compri un Suv piccolo. I dati di vendita confermano che ormai le alternativ­e sono queste. Ma basta guardarsi intorno per rendersene conto. E come nella storia del passaggio dalla berlina alla familiare, lo status symbol ha lasciato il campo alla praticità. Avere il Suv dieci anni fa era roba da “ganassa” si dice a Milano, forse sbruffoni in italiano. Adesso lo si acquista perché ha lo spazio di una station wagon, grazie alle dimensioni compatte si parcheggia con grande facilità, può essere a due o quattro ruote motrici e permette ogni tanto di lasciare l’asfalto per percorrere tratti fuoristrad­a in grande tranquilli­tà. Per esempio, se siete al volante di un Suv, un giorno di Pasquetta, in una pianura lombarda e vedete in lontananza i filari di un pioppeto…

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 ??  ?? Lo scatto realizzato nel 1969 da Gianni Berengo Gardin: un picnic al parco con alcune famiglie che pranzano vicino alle loro auto
Lo scatto realizzato nel 1969 da Gianni Berengo Gardin: un picnic al parco con alcune famiglie che pranzano vicino alle loro auto
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