MUSI E MUSE
Un professore di inglese a Eton (italiano, di Padova) saluta il suo amatissimo Dalloway, labrador nero, e celebra l'importanza dei cani nei grandi libri e nella nostra vita
Un professore (italiano) di inglese a Eton racconta come i cani siano i migliori amici degli scrittori. E finiscano spesso nei libri
DALLOWAY ERA ARRIVATO nel mese di giugno del 2005. Faceva caldo, quella domenica, e non gli invidiavo il pelo profondo e nero che s’infilava dappertutto. Quel pelo che, come lui, avrebbe riempito la mia casa e, per tredici anni, la mia vita. Dalloway era il mio primo cane e lo aspettavo da quando ero bambino. Il nome me l’ha prestato Virginia Woolf: Mrs Dalloway ( La signora Dalloway) è il titolo di un suo celebre romanzo. Io già insegnavo inglese a Eton e avevo intenzione di fargli frequentare le mie lezioni. Crudeltà verso gli animali? Ma no. Un labrador letterario non può non andare a lezione di letteratura. Due settimane fa, per la prima e ultima volta, Dalloway mi ha lasciato solo. Non sono preoccupato per lui. Se in paradiso si entra per merito, il nostro cane entrerebbe per primo, scriveva Mark Twain; e comunque non mi interessa un aldilà senza cani. Ora c’è un silenzio strano in casa e, per la prima volta in tanti anni, il pavimento è vuoto. In giro per la casa ci sono i libri, per fortuna. E sono tanti i libri, gli scrittori e i poeti che raccontano i cani. E ci ricordano che sono loro, libri e cani, a leggere noi; non viceversa. Libri e cani aiutano a proteggerci dalla solitudine.
ALL’INIZIO DELLA NOSTRA STORIA C’È ARGO, il cane di Ulisse. È lui, e non Penelope, a riconoscere il protagonista dell’Odissea dopo tanti anni di assenza. Solo guardando le orecchie e la coda di Argo Ulisse
capisce di essere tornato a casa. Dopo aver rivisto il padrone, Argo può morire tranquillo. Nel sesto canto dell’Inferno appare Cerbero. Altra storia, altro carattere. È un guardiano feroce e famelico, ma non come gli umani che sorveglia. Così lo descrive Dante, le cui simpatie cinofile non sono note: «Quel cane ch’abbaiando agogna/e si racqueta poi che il pasto morde/che’ solo a divorarlo intende e pugna». William Shakespeare, invece, dev’essere stato morso da piccolo in un campo di Stratford. Per lui i cani sono sempre associati al servilismo, mai alla lealtà. A volte diventano armi letali, i segugi di guerra che Henry V vuole sguinzagliare contro i francesi ad Agincourt. Per fortuna c’è Crab, il protagonista di una delle sue scene più divertenti, nei Two Gentlemen of Verona. Il Clown Launce si lamenta del suo animale, «il cane più acido che sia mai esistito», perché appare indifferente alle pene degli uomini. Sembra non volere partecipare ai dolori del suo padrone; ma comunque è lì, e non si muove dal suo fianco. I due sono una cosa sola. «Oh! The dog is me, and I am myself» ammicca Launce. «Oh, il cane sono io, e io sono me stesso». Stare vicino a un cane aiuta a capire cosa vuol dire essere uomo; e si può solo sperare di essere la metà della persona che il nostro cane ci crede.
I ROMANTICI INGLESI, SI SA, AVEVANO un rapporto stretto con la natura. La sublimavano cercando in un paesaggio le verità che l’Inghilterra rude della Rivoluzione Industriale non aveva tempo di notare. Ma c’è un che di lezioso e artificiale nei daffodils (giunchiglie) di Wordsworth; i mitici racconti marinari di Coleridge e le visioni distopiche di Blake sono irreali; in Keats, il mondo è intriso di malinconia. E gli animali la echeggiano. L’appetito di Byron
per la vita fa invidia a quello di Cerbero; ma anche per lui si spengono le luci, quando il suo cane muore. Nel suo Epitaph to a Dog ci ricorda che in natura ci sono animali migliori di noi: «Qui giacciono i resti di chi possedette Bellezza senza Vanità, Forza senza Insolenza, il Coraggio ma non la Ferocia e tutte le virtù dell’uomo, senza alcuno dei suoi vizi ». Ma è ancora Virginia Woolf – la madrina del mio Dalloway, per così dire – a dedicare a un cane un intero romanzo, immaginando la vita e i pensieri di Flush, il cane di Elizabeth Barrett Browning che, insieme al marito poeta Robert, nel 1847 trasloca a Casa Guidi, a due passi da Palazzo Pitti. L’afa, i rumori e gli odori di Firenze sono così diversi dall’aria e dai profumi della campagna inglese. Flush sogna «le lepri sorprese nell’erba alta; fagiani che si lanciano nell’aria, le loro code come stelle filanti…». Sogna di cacciare, sogna di rincorrere uno spaniel a macchie che gli sfugge. Eccolo in Galles, eccolo in Berkshire, eccolo fuggire dai guardiani di Regent’s Park, dai loro bastoni. In Cuore di Cane di Bulgakov l’esperimento di trapianto di un’ipofisi umana in un corpo di cane si rivela, invece, un disastro. Il risultato è un omuncolo con la coda che ama il turpiloquio e le bettole, cita Marx ed Engels, rincorre i gatti in salotto; ma ha perduto il suo cuore.
I CANI SONO MIGLIORI DI COSÌ. Il cileno Pablo Neruda nelle sue Odi Minime dedica loro versi magnifici. E fu a quel punto che mi chiese, con gli occhi, perché ora è giorno, perché verrà la notte, perché la primavera non portò nel suo cesto nulla per cani vagabondi, ma inutili fiori, fiori ed ancora fiori. Questo mi chiede il cane ed io non rispondo.
ANCHE DINO BUZZATI AMAVA i cani: li ha accolti, li ha raccontati e li ha dipinti. Uno dei suoi quadri più struggenti mostra un cane blu, accucciato in una piazza assolata. Un cane gigante, o forse è la piazza ad essere piccina. Gli occhi due teneri abissi. I cani - gli scrittori lo sanno – non sono giocattoli scodinzolanti. Sono compagni, che portano gioia ma ci ricordano anche la natura della tristezza. Premio Nobel della letteratura, oltre che grande statista, Winston Churchill chiamava la sua depressione the black dog, il cane nero. Non riuscì mai a addestrarlo, né a ignorarne la presenza.
È DIFFICILE CONCEPIRE un cane veramente malvagio. Non ci è riuscito neppure Walt Disney, e magari gli avrebbe fatto comodo un tipetto come il mastino dei Baskerville (Arthur Conan Doyle). Pippo, cane umanizzato, è adorabile. Pluto è geniale. Gli Aristogatti vengono salvati dai latrati dei bracchi Napoleone e Lafayette. I piccoli dalmata della Carica dei 101, anche se ne avrebbero avuto motivo, non hanno mai pensato di azzannare Crudelia Demon. Per restare in America, il cane Charley è l’interlocutore perfetto per John Steinbeck
( Viaggio con Charley): animale saggio, prudente, sincero («Un animale ammalato è veramente inerme, e lo si sente. Non riesce a spiegare quello che prova, anche se è vero che non sa mentire, inventare i propri sintomi, abbandonarsi ai piaceri dell'ipocondria»). Più recentemente, il labrador Marley, protagonista del romanzo di John Grogan, ha trovato ammiratori in tutto il mondo. Mentre il romanzo A Dog’s Purpose di Bruce W. Cameron (diventato un film nel 2017, distribuito in Italia col titolo Qua la zampa) ci ha proposto la storia di un cane che si reincarna più volte per ritornare, alla fine, con il suo primo padrone. Fosse vero.
NOSTRO FIGLIO LORENZO, QUATTRO ANNI, dopo avermi chiesto per giorni «Papà, voglio che Dalloway ritorni!», ci ha convinti a riaprire la casa a un altro cane. La piccola Dotty, un cocker bianco e nero, arriva tra qualche giorno. Lorenzo è convinto che Dalloway ce l’abbia mandata, e
credo abbia ragione. Tutto è pronto. Una ciotola d’acqua per bere, una coperta per riposare, i prati di Eton per correre. «O filosofi, abbiate tutti un cane», suggerisce Pirandello «e prima di affermare qualsiasi cosa, guardatelo». Elias Canetti gli fa eco: «Guardate gli occhi di un cane che dorme, e vergognatevi della vostra filosofia». Mio figlio, senza conoscere né uno né l’altro, sarebbe d’accordo.