MANO LIBERA
Le parole sante di don Sturzo: «Promettere poco e mantenere»
INDOVINA INDOVINELLO: chi ha scritto la seguente frase? «Lo Stato getta milioni e miliardi dalla finestra della demagogia, che è penetrata nelle ossa dei politicanti italiani». C’è chi dirà: qualche professorone liberal e polically correct che vive in America e pretende di impartire lezioncine a destra e a manca senza degnarsi di sporcarsi le mani nei problemi dell’Italia profonda… Macché: don Luigi Sturzo, che quasi cento anni fa, nel 1919, lanciò l’«appello ai liberi e forti» e fondò il Partito Popolare Italiano del quale sarebbe diventato il segretario nel 1923, dopo l’avvento del fascismo che lo avrebbe spinto all’esilio in America. Cosa avrebbe detto della nostra ultima campagna elettorale infarcita di promesse mirabolanti? Sappiamo come la pensava: «È primo canone dell’arte politica essere franco e fuggire dall’infingimento; promettere poco e mantenere quel che si è promesso». Magari! Dopo i trionfi elettorali di Luigi Di Maio (accusato da più parti d’esser un neostatalista a partire dalla promessa del reddito di cittadinanza) e di Matteo Salvini («le economie che sono cresciute grazie all’innovazione, sono quelle dove il pubblico era anche il motore, non solo l’arbitro. Basta guardare alla Cina e agli Stati Uniti. (…) Dove invece lo Stato spende, anche i privati si impegnano in progetti costosi») vale dunque la pena di rileggere quanto il politico siciliano pubblicò sul Popolo il 19 gennaio 1947. In un articolo ripreso
nel libro Servire non servirsi edito da Rubettino. Dopo ventidue anni all’estero, Sturzo confessava di non riuscire più a «sopportare l’aria greve e soffocante dello statalismo». Insomma: «Quel che più disturba chi è vissuto per lungo tempo in Paesi liberi, dove non è mai esistita la concezione di uno Stato (con la S maiuscola, ente anonimo sempre presente e sempre opprimente), è la constatazione che gli italiani si sono talmente adagiati all’idea di uno Stato-tutto, che nessuno ha più ritegno di invocare provvedimenti e interventi statali per la più insignificante iniziativa». Dappertutto vedeva «commissari governativi antifascisti al posto dei fascisti – ma sempre commissari – arbitri di enti statali, parastatali, sopra statali… tutti con tanto di mar- ca di fabbrica: lo Stato». Un assedio asfissiante: «Fascismo, fascismo puro, statalismo soffocante, rosso invece che nero, ma pur sempre statalismo. Tutto ciò non disturba i sonni dell’italiano medio, che sarebbe felice se lo Stato potesse togliergli le preoccupazioni della vita». Parole simili a quelle di Piero Gobetti che tanti anni prima aveva visto il fascismo del Duce, con le sue turbopromesse di un futuro favoloso, come «una catastrofe, un’indicazione d’infanzia decisiva» perché consacrava «il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo». Un esempio? Il patto coi siciliani: «Le energie dello Stato saranno d’ora innanzi con maggiore intensità convogliate verso di voi perché la Sicilia rappresenta il centro geografico dell’ Impero». Sì, ciao…
FATTO STA CHE nella scia di Mussolini, accusava Sturzo, si erano messi gli antifascisti. Risultato: «Per sopportare l’elefantiasi dell’accentramento, lo Stato ha preso in mano tutte le risorse del Paese; lo Stato ha gonfiato il suo tesoro (oh! carta stampata che corrode il valore della nostra liretta, quando cesserai di inondare il Paese?); lo Stato getta milioni e miliardi dalla finestra della demagogia, che è penetrata nelle ossa dei politicanti italiani. Nel vortice dell’accentramento e della statizzazione si perde il senso della realtà e del relativo per una specie di assorbimento nella potenza magica della politica e dell’economia unificate». Potenza magica…