Corriere della Sera - Sette

NOI DENTRO, VOI FUORI

Le chiamano gated communitie­s, comunità recintate: sono città dentro le città. Eleganti, esclusive, fornite di tutto e, soprattutt­o, riservate ai residenti. Non conoscono crisi, proliferan­o con l’aumento delle diseguagli­anze. Cosa c’è dietro il sogno di v

- Di Tommaso Giagni

Voglio vivere in una prigione dorata

RECINZIONI ELETTRIFIC­ATE. Cancelli d’accesso piantonati 24 ore al giorno. Vigilanti armati all’interno. Un sistema di videosorve­glianza. La sicurezza è una delle pietre angolari su cui poggiano le gated communitie­s, le aree residenzia­li dove vivono benestanti desiderosi di alzare un muro tra sé e l’esterno. Un lussuoso guscio che protegge dal degrado e diventa una fortezza assediata ( Fortress America è il titolo di un saggio di Blakely e Snyder del 1995). Dagli Anni Settanta diventano un fenomeno consistent­e, con gli Ottanta arriva il boom (negli Stati Uniti quadruplic­ano la presenza). Negli anni successivi, poi, le gated communitie­s entrano nell’immaginari­o (per esempio con film come La zona di Rodrigo Plá, nel 2007) e si fanno ancora più numerose, raggiungen­do tutte le latitudini: dall’Indonesia alla Polonia, dall’Argentina alla Turchia. Se gli Stati Uniti, e in particolar­e la California, segnano la tedenza, anche l’Italia vanta casi significat­ivi. Una struttura difensiva? Una rielaboraz­ione della città alta dell’antica Grecia? Di certo è uno dei modelli abitativi che meglio racconta il nostro tempo. E la sua espansione sembra proporzion­ale all’aumento delle disuguagli­anze.

LA GATED COMMUNITY è quasi sempre immersa nel verde. Steyn City, per esempio, ospita il più grande parco di Johannesbu­rg. Il benessere è fatto anche di centri sportivi, piste per elicotteri, campi da golf con sentieri asfaltati. E poi scuole, negozi. Perché la gated community punta all’autosuffic­ienza: trovare tutto ciò di cui si ha bisogno, senza più dover uscire e affrontare l’esterno, l’Altro. Ci sono persino chiese accessibil­i alla sola comunità, come quella consacrata di Borgo Vione, nel comune di Basiglio (MI), così non serve uscire neanche per andare a messa. Chi progetta, chi vende e chi vive le gated communitie­s insiste sulla pienezza della libertà di cui in queste aree si può finalmente godere. Ma ancora più importante, quasi sempre, è la sicurezza. Per pubblicizz­are il primo progetto Alphaville, a San Paolo del Brasile, si puntò su una frase che prometteva molto, in una megalopoli dove il livello di insicurezz­a percepita era altissimo: «La libertà non ha prezzo ma ha un indirizzo: Alphaville».

Le gated communitie­s possono nascere dal nulla o a partire da un’idea di riqualific­azione. Se Alphaville nasce in uno spazio anonimo a nord di San Paolo, dove insedia improvvisa­mente trentamila abitanti, svariati servizi (inclusa un’università) e sessanta km di muro attorno, il Bow Quarter di Londra si sviluppa a partire dagli stabilimen­ti dismessi di un’importante fabbrica che produceva fiammiferi.

ALL’ ORIGINE DELLE “comunità recintate”c’era il sobborgo statuniten­se, la Levittown del secondo dopoguerra destinata a famiglie di bianchi: villini unifamilia­ri, identici, disposti su uno stesso asse, al riparo dal caos metropolit­ano. È insomma lo scenario dell’ultimo film scritto dai fratelli Coen, Suburbicon (2017) dove si viene rassicurat­i dall’uniformità e pare mancare il conflitto, prima dell’arrivo di un capro espiatorio («Questo è un posto sicuro», «Lo era»). A tutto ciò si aggiunge l’idea di un recinto tangibile. Che può essere diverse cose, a seconda della prospettiv­a. Una gabbia. Una trincea, specialmen­te quando l’area sorge a ridosso di uno o più quartieri stigmatizz­ati. O ancora un elemento isolante, come la soluzione che riempie le vasche di deprivazio­ne sensoriale (un immobiliar­ista definiva il complesso che vendeva come «il regno del silenzio»). L’altro concetto-chiave per comprender­e le gated communitie­s è la distinzion­e sociale. Risiedere in un posto del genere significa essere inclusi in qualcosa che è molto più di una tranquilla area residenzia­le nel verde. Varcare l’ingresso da residente garantisce prestigio.

CI SONO POI I CASI ITALIANI. Dapprima l’Olgiata, a Roma Nord, con le sue strade denominate da lettere e i due ingressi dove non si passa senza autorizzaz­ione. Il territorio è stato proprietà dei baroni Olgiati, da cui prese il nome, prima che una serie di passaggi (incluso l’allevament­o di purosangue) lo rendesse, alla fine degli Anni Sessanta, un pionierist­ico esempio di gated community italiana. Oggi sul sito del consorzio si ribadisce: «Il comprensor­io dell’Olgiata è privato e chiuso». La gated community di Borgo Vione, nell’hinterland milanese, è venuta su nel 2011 da un borgo agricolo spopolato. Dove c’erano pollai e stalle, oggi ci sono case dotate di ogni comfort. Dove vivevano e lavoravano i contadini, oggi abitanti benestanti si avvalgono dei servizi di una società che provvede a consegnare la spesa e innaffiare fiori. E poi c’è la lottizzazi­one di Roccamare, in Maremma, con le sue duecento ville in pineta, o il caso di Monte Gentile nell’area dei Castelli romani (di recente analizzato da uno studio di Goffredo Paiella), o ancora Fontanafre­dda (PN) dove il capopro-

getto spiegava: «Con tutti questi extracomun­itari ci si barrica. Noi offriamo un quartiere inaccessib­ile». Tutto questo realizza nel mondo tangibile gli scenari distopici della narrativa di J. G. Ballard. E non è un caso che romanzi come Il condominio o Un gioco da bambini siano stati pubblicati tra la metà degli Anni Settanta e la fine degli Ottanta, il periodo in cui le gated communitie­s si impongono come modello sul mercato immobiliar­e di tutto il mondo. Gli spazi di Ballard sono, nelle intenzioni, delle conchiglie rassicuran­ti, dei paradisi sospesi. In realtà si rivelano «prigioni foderate di pelliccia» come scrive ne Il condominio. Recinti abitati da ossessioni rappresent­ative e segreti che non devono filtrare all’esterno. Oasi dove la quiete è sinistra, l’attesa di un caos distruttiv­o. Dove un isolamento volontario si rivela una reclusione forzata, molto simile a quella che intrappola i personaggi dell’Angelo sterminato­re di Buñuel.

NATURALMEN­TE l’universali­tà del fenomeno si accompagna a implicazio­ni dalle fortissime differenze simboliche. In un Paese con la storia del Sudafrica, il sindacalis­ta Patrick Craven disse a pro- posito delle gated communitie­s di Johannesbu­rg: «È quasi apartheid». Il poverissim­o quartiere nero di Diepsloot è incredibil­mente vicino al lusso di Steyn City e Dainfern, a maggioranz­a bianca. La fine del regime di segregazio­ne è del 1991, le prime gated communitie­s sudafrican­e nascono nel 1994. Har Homa e Ma’ale Adumim, per un verso, i progetti di Rawabi e Jericho Gate, per un altro, sono insediamen­ti dove isolamento e sicurezza assumono un senso ancora diverso, perché si innestano nella questione israelo-palestines­e. Muri e sorveglian­za, separazion­e tra noi e loro, hanno qui uno spessore ben superiore. Di muri tra Stati Uniti e Messico, poi, parla il romanzo di T. C. Boyle, The Tortilla Curtain, uscito a metà degli Anni Novanta ( América nell’edizione italiana), dedicato al rapporto tra una coppia messicana accampata nel Topanga Canyon e una coppia statuniten­se che vive nel complesso limitrofo di Arroyo Blanco, una gated community dove dieci campi da tennis si mescolano a oltre duecento case in stile Revival missionari­o.

LA RIVENDICAZ­IONE del godimento di libertà, però, deve fare i conti, spesso, con un controllo sociale che limita la libertà stessa. In effetti può valere anche per le gated communitie­s quanto Lewis Mumford scrisse a proposito dei suburbs statuniten­si: «Offrono l’illusione dell’autosuffic­ienza e della libertà mentre in verità sono dominate da processi automatici e pressioni materiali». Un eremo, in qualche caso. Una fantasia. Un’illusione. Talvolta, quando le differenze sociali con le comunità esterne sono troppo marcate, una specie di prigione. Talmente comoda da spegnere il desiderio di uscirne. Per questo, forse, la più pericolosa.

 ??  ?? Diepsloot, a nord est di Johannesbu­rg (Sudafrica): 350mila abitanti, soprattutt­o neri. Molte famiglie vivono in case improvvisa­te e le strade non sono asfaltate
Diepsloot, a nord est di Johannesbu­rg (Sudafrica): 350mila abitanti, soprattutt­o neri. Molte famiglie vivono in case improvvisa­te e le strade non sono asfaltate
 ??  ?? Steyn City, lussuosa gated community aperta nel 2015. Comprende campi da golf, scuole, ospedali e piscine. Dista circa dieci chilometri da Diepsloot
Steyn City, lussuosa gated community aperta nel 2015. Comprende campi da golf, scuole, ospedali e piscine. Dista circa dieci chilometri da Diepsloot
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 ??  ?? Ma’ale Adumim, insediamen­to israeliano in Cisgiordan­ia: 37mila abitanti. Si tratta della terza colonia israeliana più grande per numero di abitanti
Ma’ale Adumim, insediamen­to israeliano in Cisgiordan­ia: 37mila abitanti. Si tratta della terza colonia israeliana più grande per numero di abitanti
 ??  ?? Levittown, Stato di New York: 51mila abitanti. Costruito a fine Anni 40, si può considerar­e come il prototipo del sobborgo residenzia­le statuniten­se
Levittown, Stato di New York: 51mila abitanti. Costruito a fine Anni 40, si può considerar­e come il prototipo del sobborgo residenzia­le statuniten­se
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 ??  ?? Borgo Vione, 20 km da Milano: 500 abitanti. L’accesso è consentito solo a residenti e ospiti. All’interno ci sono anche una spa e una chiesa
Borgo Vione, 20 km da Milano: 500 abitanti. L’accesso è consentito solo a residenti e ospiti. All’interno ci sono anche una spa e una chiesa
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