Corriere della Sera - Sette

ALTRI MONDI

- Di Emmanuelle de Villepin

I chorotes d’Argentina non conoscono l’invidia

Nei villaggi della comunità chorotes, al confine tra Argentina e Paraguay, gli indigeni hanno ancora problemi di malnutrizi­one e combattono le malattie con bastoni di legno. Ma si aiutano fra loro e nessuno vorrebbe vivere nel mondo di fuori

MERCEDES ED IO frequentav­amo la stessa scuola elementare a Parigi e la nostra amicizia ci sembrava invulnerab­ile, poi le nostre vite hanno preso strade diverse e ci siamo perse. Mercedes Avellaneda Bocca è la figlia di un diplomatic­o argentino, è cresciuta in tutto il mondo, parla svariate lingue e ha una mente aperta. Oggi insegna antropolog­ia storica all’Università di Buenos Aires e una delle sue priorità è aiutare le comunità indigene che vivono a 200 km di strada sterrata dalla città più vicina, coltivando la loro terra e resistendo alla tentazione di conoscere il mondo di fuori. Con l’aiuto del ministero dell’Educazione nazionale, la fondazione Redes Solidarias, di cui Mercedes Avellaneda è tesoriera, è riuscita a creare scuole in numerosi villaggi, portare l’acqua e altri aiuti. Grazie a lei siamo state ospiti della Estrella, una comunità di indiani chorotes, la cui storia singolare comincia con un assistente sociale biondo e tutt’altro che indio: Daniele Nieli,

professore universita­rio. Alla fine degli Anni 90 viene a conoscenza dell’epidemia di colera a La Paz, una vecchia missione anglicana nel nord dell’Argentina, alla frontiera con il Paraguay, nella provincia di La Salta. Daniele Nieli corre in loro soccorso e s’innamora della figlia del cacique, ovvero il capo del villaggio. Il cacique viene nominato secondo l’importanza del suo ruolo nella comunità, ma un po’ di spirito monarchico soffia ancora. Daniele diventa una sorta di vice cacique bianco. Alla morte del suocero, quando i gendarmi propongono di ricomprare le terre, il nuovo cacique si mostra disponibil­e, contrariam­ente a Nieli e altri membri della comunità. La rottura è inevitabil­e e i refrattari all’accordo, sotto la guida di Nieli, vanno via e fondano la Estrella a pochi chilometri dalla missione La Paz. Oggi il cacique de la Estrella è Pablo Segundo, il nipote del cacique defunto. Lui e sua moglie Avelina sono incaricati di tutto ciò che riguarda la collettivi­tà. Vengono poi nominati i responsabi­li dei vari settori: l’igiene e la salute, l’agricoltur­a e l’artigianat­o. Ma l’aiuto maggiore arriva dalla scuola. È molto importante per gli indigeni. Da questa si aspettano autorevole­zza, formazione e cibo. Il primo compito della scuola è insegnare lo spagnolo ai bambini che parlano solamente chorotes o witi ( lingue indigene ndr). Pablo, per esempio, deve parte del suo prestigio al fatto che sia bilingue spagnolo/chorotes.

GLI INSEGNANTI sono per la maggior parte cresciuti vicino alle comunità e sono molto rispettati. Vengono consultati anche per questioni che esulano dalla scuola. Il loro insegnamen­to mira soprattutt­o a migliorare la qualità della vita, la salute, l’igiene: insegnano a raccoglier­e i detriti nelle pattumiere, a non mangiare per terra e usare le posate, lavarsi e andare in ospedale quando si sta male.

Le comunità di indigeni sono più o meno 150. Mercedes ci ha portato in cinque di queste e abbiamo soggiornat­o alla Estrella. Per spiegare la scelta di questo poetico nome, Pablo disegna nella terra una stella a cinque punte e spiega che a ogni punta corrispond­e una lettera del nome David, cacique difunto: D (difesa), A (autonomia) V (vita), I (identità), D (dignità).

D COME DIFESA: I chorotes sono totalmente privi di cattiveria, d’invidia e di ambizione. Perfino gli invasori Inca li hanno lasciati in pace, pensando che non ci fosse nulla da guadagnare dalla conquista di un popolo senz’altra mira che la sopravvive­nza quotidiana. La loro difesa riguarda solo la mortalità infantile, la malattia e l’acqua. Vivono a stretto contatto con la natura e ne accettano la malvagità. Un po’ di resistenza viene gestita da Damiano e Martina, il primo responsabi­le della salute nominato dal ministero,

fornitrice del pane per la scuola la seconda. Il lavoro di Damiano consiste soprattutt­o nell’inculcare le regole essenziali dell’igiene e mandare chi si ammala nei centri di salute sanitari. Dice che la mortalità infantile è molto calata da quando la fondazione Redes Solidarias ha portato l’acqua. I chorotes curano i problemi di reni e fegato con un legno azzurro ma quando non riescono a guarire con i loro rimedi fanno ricorso alla medicina ufficiale.

A COME AUTONOMIA: gli indigeni sono fieri della loro cultura e il cacique teme che a causa dell’allungamen­to del tratto asfaltato tra Tartagal, il capoluogo, e la Estrella, i nostri costumi possano contaminar­e i loro giovani. Non sono io a voler fare una distinzion­e tra loro e noi – e se la facessi non sarebbe per forza a nostro vantaggio – ma loro, che quando parlano di noi dicono el otro mundo. Vedono con una certa diffidenza ciò che offriamo. I loro carrubi, gli algarrobos, sono grandi e maestosi. Quando i baccelli maturano, gli indiani ne traggono una farina e un ottimo latte vegetale. Il governo argentino, volendo rimediare alla malnutrizi­one, ha mandato farina bianca e zucchero, che però hanno provocato il diabete. Probabilme­nte perché la popolazion­e non è abituata a questi alimenti. Un’altra preoccupaz­ione riguarda l’inquinamen­to del Rio Pilcomayo. Secondo Andrés, il pescatore, i pesci potrebbero essere stati contaminat­i da qualche sostanza che provoca attacchi di dissenteri­a. In compenso, gli aiuti del governo alle famiglie hanno ridotto considerev­olmente il tasso di mortalità infantile dovuto alla cattiva alimen- tazione. Inoltre, lo stato versa annualment­e alla scuola 5.000 pesos (300 euro circa) per i piccoli lavori o riparazion­i. Capita che i soldi per la mensa arrivino in ritardo, ma non c’è nessun problema, dicono gli indigeni, prima o poi arrivano. E sempre riguardo all’autonomia, Noemi è un esempio di imprendito­ria formidabil­e: ha trasformat­o la sua casa in una mensa, un comedor grazioso ed accoglient­e. Ci ha messo delle tovaglie colorate e cucina hamburger e uova saltate piuttosto gustose. Vive da sola e dorme sotto un albero.

V COME VITA: la vita della comunità è allegra e indaffarat­a. Tutti lavorano per tutti. Gli uomini si aiutano a vicenda nelle costruzion­i delle case, le donne cercano la legna per il fuoco e si occupano di cucinare. Le case non sono

L’aiuto maggiore arriva dalla scuola. Da questa si aspettano autorevole­zza, formazione e cibo. Il primo compito della scuola, però, è insegnare lo spagnolo ai bambini che parlano solo le lingue indigene

tenute ben, ma, in compenso, tutti giocano con i bimbi. Delfina, la bellissima madre del cacique, è la responsabi­le dell’artigianat­o locale: un insieme di botanica, filatura e intreccio di fibre naturali molto eleganti. È una figura di grande rispetto nel villaggio. La religione è evangelica: una versione in cui non si pratica e non si va in chiesa. Si segue un unico principio: bisogna volersi bene l’un l’altro e aiutare chi sbaglia. Per quanto riguarda il matrimonio, non c’è nessuna cerimonia. L’uomo chiede al padre della sua ragazza di poterla sposare, una volta ottenuto il permesso deve lavorare tre anni nella famiglia della sposa. I 15 anni, invece, sono festeggiat­i con grande clamore: tutto il villaggio mangia insieme una mucca macellata per l’occasione. Suonano e ballano. La sessualità è molto libera, ma non ci sono tanti tradimenti. Se una coppia ha dei problemi tutto il villaggio cerca di risolverli perché una separazion­e farebbe toppo male ai bambini. Riguardo all’omosessual­ità non c’è problema, nessuno la giudica male. Ma non c’è il matrimonio.

I COME IDENTITÀ: Delfin Segundo mastica le foglie di coca mentre racconta del suo viaggio in Italia. Nel 2008 ha ricevuto un premio da Slow Food per la sua cultura in materia di peperoncin­o. È stato invitato a Torino insieme ad altri piccoli agricoltor­i. Come i suoi compagni non era mai andato nell’otro mundo ed era un po’ preoccupat­o. In aereo ha avuto la fortuna del posto vicino al finestrino e ha potuto constatare che, vista dall’alto, la terra assomiglia davvero a quella delle mappe. A Torino Slow Food aveva organizzat­o le cose molto bene e ha potuto alloggiare da un altro agricoltor­e, con il quale non si capivano, ma andava bene lo stesso. In fiera, poi, poteva scambiare informa-

zioni e impression­i con gli altri agricoltor­i di lingua spagnola o con gli africani, con cui l’intesa era più facile per la loro comune confidenza con la povertà e perché, secondo Delfin, l’africano e il chorotes si assomiglia­no. Un giorno hanno comprato un biglietto di autobus e hanno fatto il giro della città. Delfin ne ha concluso che l’otro mundo è pazzo. Ha saputo che fumiamo e beviamo benché siamo coscienti che questo finisce per ammazzarci, e l’ha trovato inspiegabi­le. L’hanno anche inquietato le donne che fumano per strada, il ritmo così frenetico e il rumore delle voci. Secondo lui non possono avere rapporti con noi dell’otro mundo perché non hanno niente da offrirci e non ci possiamo capire. Una cosa, però, l’ha proprio entusiasma­to dell’Italia: il cibo.

D COME DIGNITÀ: gli indigeni parlano della loro povertà con un’assenza totale d’invidia nei nostri confronti. Anzi, quando Delfin è tornato al villaggio e ha raccontato di noi, si sono spaventati all’idea di una possibile promiscuit­à con la nostra cultura.

LA MISSIONE LA PAZ è stata creata dalla Chiesa Anglicana che l’ha poi abbandonat­a al momento della guerra delle Malvine. Tita e Andrés ci crescono 10 figli. Andrés

Delfin dice che gli indigeni non possono avere rapporti con noi dell’otro mundo. Non hanno niente da offrirci e non possiamo capirci

è pescatore. Mentre parliamo, vediamo in lontananza dei bambini che giocano nel fiume. Anche se ci sono 45 gradi, c’è una leggera brezza che solleva la polvere, il giorno sta calando sul paesaggio della Estrella. La dolcezza dell’ora più bella ispira alla confidenza. Raccontano della morte del loro bambino di 18 mesi per malnutrizi­one e sono grati allo Stato che manda latte in polvere. Ma dicono anche di non temere la morte perché, come hanno detto gli evangelist­i, andremo poi dal Buon Dio e andrà tutto bene. Andrés mi chiede: «Com’è la tua città?». «Bella» rispondo sobriament­e. «Ma la terra assomiglia a questa?». «Non lo so. La terra non si vede. È tutto costruito.» «E gli alberi?». «Te l’ho detto, è tutto costruito, non vedi molti alberi.» Andrés tace e fissa il suolo rosso con aria pensierosa. «Che cosa c’è?» Gli chiede Mercedes. Mi guarda e risponde: «Sono triste per lei».

 ??  ??
 ??  ?? Qui una donna con i suoi due figli alla Estrella. A sinistra l’interno della casa di uno degli abitanti del villaggio
Qui una donna con i suoi due figli alla Estrella. A sinistra l’interno della casa di uno degli abitanti del villaggio
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Tramonto a Estrella. A destra, in alto, Noemi e sua figlia cucinano alla mensa El conejito, nella comunità di Santa Victoria; in basso, bambini aspettano la loro razione di cibo
Tramonto a Estrella. A destra, in alto, Noemi e sua figlia cucinano alla mensa El conejito, nella comunità di Santa Victoria; in basso, bambini aspettano la loro razione di cibo
 ??  ??
 ??  ?? Qui una partita di pallavolo A destra, in alto, Andrés mostra le reti da pesca alla moglie Tita. In basso, bambine lavano i panni. Per saperne di più su la Estrella: www.redes-solidarias.org.ar
Qui una partita di pallavolo A destra, in alto, Andrés mostra le reti da pesca alla moglie Tita. In basso, bambine lavano i panni. Per saperne di più su la Estrella: www.redes-solidarias.org.ar
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy