VERSI AL FEMMINILE
La poesia è una bella bestia
Abbiamo chiesto cosa significa scrivere versi alle autrici italiane emerse negli ultimi anni. Ne è nato un bestiario tascabile: per Francesca Genti la poesia è un unicorno, per Isabella Leardini un drago, per Alba Donati una formica, per Maria Borio un delfino. A ogni animale corrisponde una qualità: immaginazione, pericolosità, operosità e coraggio
COME STA LA POESIA FEMMINILE oggi in Italia? Quali voci sono emerse? Tra le lettere ricevute all’Ufficio poesie smarrite di 7, molte chiedono di segnalare, oltre ad autrici e autori del passato da recuperare, anche voci contemporanee, in particolare femminili, andando oltre le note sacerdotesse del verso come Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque. Dalle uscite di questi mesi si ha l’impressione di una certa vitalità, anche saggistico-critica, che vede le donne ormai protagoniste rispetto agli anni precedenti. Di Francesca Genti (Torino, 1975), per esempio, è appena uscito da Harper Collins Anche la sofferenza ha la sua data di scadenza. Le lettere sono rosa shocking, su sfondo nero felino, identitario il sottotitolo: «Poesie per gatte governate da Saturno». Raccoglie il meglio della sua produzione, tutta suoni cantilenanti e immagini frizzanti, fatta di arcobaleni acrilici, romanticismi metropolitani, amori da supermercato, uomini che non capiscono, erotismo disinibito (che quando l’autrice era diciannovenne spaventò Maurizio Cucchi, che su una rivista pubblicò Sentiti cambiando un verso: al posto di «ti masturbi» mise «ti fai», ben più inquietante però, può alludere alla droga). Sempre di Genti, è uscita La poesia è un unicorno (Mondadori), saggio personale che fa il punto sulla poesia oggi (festival, nomi) e antologia di poesie di uomini e donne scelte e analizzate sotto il segno dell’unicorno, ovvero lo stupore violento dell’immaginazione che spiazza e re-inventa la realtà. Come la poesia di Sandro Penna, amatissimo da Genti, che per le piccole grandi domande d’ogni giorno è più sapienziale de I-Ching (Cesare Garboli dixit). Nuova raccolta e saggio (in vista) anche per Isabella Leardini (Rimini, 1978), che a fine 2017 ha pubblicato Una stagione d’aria (Donzelli), rompen- do un silenzio di 13 anni: il precedente libro era La coinquilina scalza (la Vita Felice), esordio del 2004, propiziato dalla vittoria al premio Montale Giovani e voluto da Milo De Angelis, folgorato dalla sua impenetrabile apertura di cuore. In questi anni si è dedicata al festival Parco Poesia di Rimini e a laboratori di scrittura nelle scuole e presso comunità. Esperienze in parte rielaborate nel saggio Domare il drago (Mondadori, esce ad agosto), che fornisce un kit per addomesticare in versi i mostri che si agitano in noi. Se due indizi fanno una prova, la poesia al femminile è un animale fantasy.
ABBIAMO INCONTRATO le due poetesse a Milano, l’8 marzo, nell’abitazione adibita a piccola casa editrice, Sartoria Utopia, da Francesca Genti, che dal 2012 fabbrica a mano, con Manuela Dago, libri di poesia di autrici e autori che amano. Artigianalità
condivisa anche da Leardini, per cui a sentirle parlare di carta, fori, rilegature sembrano sarte della parola, tessitrici di poesia altrui. Come, su vari piani, le poetesse Alba Donati (Lucca, 1961), presidente del Gabinetto scientifico letterario Viesseux di Firenze, e Maria Borio (Perugia, 1985), che cura la sezione poesia della rivista Nuovi argomenti. Leardini, dopo aver conversato con Genti di font tipografici (ama il Garamond) e di come Instagram esalti la poesia stampata su pagine cartacee molto più dei social che producono versi nativi digitali (la pagina fa parte della poesia, è partitura, non solo supporto) parla così de La stagione dell’aria: «È un libro sull’amore imperfetto, la fine della giovinezza. La stagione a Rimini è quella delle vacanze altrui, il contrasto tra chi riparte e chi rimane». Il libro è attraversato da uno stormo di donne: «Da madri che perdono gli anelli a ragazzine che stanno al buio in un ospedale, dalla Sirenetta di Andersen a Irene, la ragazza misteriosa che è rimasta solo un nome sull’insegna di una piccola pensione. Rappresenta l’eternità di tutti gli amori sospesi in una stagione che non tornerà mai più». Il tempo dell’amore, invece, per Fran- cesca Genti è circolare. La raccolta Anche la sofferenza ha la sua data di scadenza, arricchita di inediti, è divisa secondo le età della vita, dall’infanzia metropolitana alla maternità fantascientifica («le donne incinte sul web fanno domande e ricevano risposte assurde sulle mutazioni del corpo»). Ma le donne adulte restano bimbe, così come le bimbe sembrano piccole donne: «I libri di poesia sono matrioske, come la vita delle donne. Ne apri una, dentro ne trovi un’altra». Ogni donna-matrioska è un ossimoro vivente, una gatta governata da Saturno. «Il termine gatta indica uno stereotipo femminile che rimanda al disordine, all’irrazionalità, all’individualismo selvatico e a una naturalezza seduttiva, mentre Saturno è il tempo, il principio paterno, l’ordine e il razionale, Saturno è il padre che mangia i suoi figli, le gatte vanno in calore seguendo le stagioni e, loro malgrado, si fanno ingravidare. Il verso “gatte governate da saturno” è la mia personale rivisitazione del “vogliamo tutto” di Nanni Balestrini».
NELL’ALBUM-BESTIARIO di famiglia di Genti (manca Mia zia è un drone impazzito, si trova online), ci sono cagnette astronautiche (Laika), scimmie hollywoodiane (Cita) e pecore elettri- che («È morta Dolly, / la pecora clonata / ma come ha fatto / se non era mai nata»). Oltre all’unicorno, di cui parla nel saggio per Mondadori: «È un animale immaginario, la poesia ha a che fare con una tensione estrema verso l’immaginazione. Le parole si spogliano del loro significato comune per diventare suono, stelle che illuminano dal lontanissimo la nostra vita, ci fanno sognare e ci guidano». Nel libro di poesie di Leardini i versi cercano un’epifania fuori stagione. Come la rondine bianca, in cui l’autrice si immedesima, delizioso scherzo di natura che sparisce tra la neve che non conosce. Come si arriva dal drago, di cui parla nel saggio, alla rondine? «La poesia dice la verità ma la dice in modo obliquo, e deve sempre mantenere la sua radice segreta, una piccola e intoccabile quota di oscurità. La poesia ha una natura di belva, è il drago che vuole essere domato e può diventare il nostro animale. Un drago che difende sempre una perla di conoscenza. Lo si addomestica attraverso “sette sì” che chi vuole scrivere deve dire alla poesia. Dal sì al silenzio, spazio necessario a far risuonare la poesia, il silenzio delle conchiglie, fino alla forma che la fissa sulla pagina, passando per il sì alla parola, che spesso rifiutiamo per paura di essere ridicoli,
poi il sì al tu, il destinatario vero, il sì al lavoro, perché scrivere è riscrivere, non è uno sfogo; e ancora il sì al nodo, che è la parte segreta di te che devi toccare senza sciogliere, e il sì alla voce, la lettura davanti a tutti». Continuiamo il bestiario con Alba Donati, di cui uscirà a fine aprile per la Nave di Teseo Tu, paesaggio dell’infanzia. Tutte le poesie (1997-2018): «La poesia è una formica, una di quelle che passavo le ore a studiare da bambina. Incamera, mette da parte qualsiasi cosa e non sa a cosa serve la singola pagliuzza, il seme, il guscio, ma poi quando porta tutto dentro il formicaio ecco che tutte le piccole cose inservibili diventano una grande cosa. Una costruzione, una difesa, un bunker. E così nella vita: si legge un libro e si porta via una frase, da un film un dialogo, un’immagine, e poi pezzetti di storie, paesaggi, rumori, ticchettii, lamenti, si porta tutto nel formicaio e all’improvviso quel che sembrava un anomalo assemblaggio di cose diverse prende forma. Come un mobile Ikea. Arriva e non immagini come possa assumere fisionomia, poi tutto torna. La poesia è una formica dell’Ikea». C’è una specificità nella scrittura poetica femminile? Per Donati sì: «C’è un’ironia simpatica, democratica, che mette il pensiero narcisista, storicamente maschile, ko. Il mondo visto dal punto di vista del granello di sabbia, direbbe Wislawa Szymborska. Vedere se stessi in una moltitudine e non riconoscersi, sapere di essere uno dei tanti punti di vista possibili. Questo avvicina Emily Dickinson alla Szymborska, Vivian Lamarque a Carol Ann Duffy».
PER MARIA BORIO la poesia è invece un delfino, «animale coraggioso». Poetessa anch’ella (nel 2017 è uscito L’altro limite, LietoColle/ Pordenonelegge), ha pubblicato un utilissimo saggio sulla poesia italiana dal 1970 al 2000, Poetiche e individui, dove analizza stili e visioni del secondo Novecento, registrando l’emersione delle voci femminili, in reazione all’egemonia maschile: «Ma oggi è improprio parlare di poesia con caratteristiche femminili, anacronistico, come pensare all’attualità del femminismo in quanto forza ideologica. Il genere è una questione ben più complessa rispetto alla definizione di caratteristiche al femminile. Oltre le differenze biologiche e psicologiche, e i rapporti sociali, i generi parlano di un rinnovamento della percezione e delle dinamiche antropologiche della realtà. Nel confronto tra le vecchie e le nuove generazioni è evidente». La novità è che le donne ora sono più presenti come autrici: «Le statistiche confermano che in Italia il pubblico dei lettori è per la maggior parte femminile – ricorda Borio –. Un bel saggio di Alain Badiou, La vera vita, descrive lo stato attuale dei giovani occidentali. Mette in luce come negli ultimi decenni la base forte del mondo culturale occidentale sia alimentato e sostenuto dalle ragazze. Prospetta un futuro culturale in mano alle donne, cui si dovrebbe persino chiedere di ripristinare un equilibrio di generi». Ci saranno sempre più poetesse. O «poete», il plurale femminile che usa Genti. Ma non è cacofonico? «Sì, è più bello poetesse di poete, ma poeti è più bello di poetesse. Prova a farti chiamare poetesso! ». Di certo, gli editori cercano altri autori che possano avere il seguito di Guido Catalano, un poetesso di successo. Possibilmente donna: insomma, cercano Miss Poesia. Così si chiamava la trasmissione Rai dove si conobbero Genti e Leardini. A fine intervista arriva Babollo, il gatto di Genti, attratto dai flash della macchina fotografica che colpiscono i suoi occhi. Fa le fusa a Leardini, che sorride: «Ha riconosciuto la strega che è in me». O forse vuole mangiarsi la rondine bianca.