Corriere della Sera - Sette

QUELLI DELLO SCALONE DI VIA SOLFERINO 28

- Di Lorenzo Viganò

Virgilio Lilli: l’inviato che volle scrivere anche la propria fine

Una personalit­à eclettica (scomoda per il fascismo), passata dalla musica ai fronti di guerra. La sua scrittura, diceva Montanelli, era una macchina fotografic­a di alta precisione. Sempre sul campo, raccontava con sentimento

L’ULTIMO ARTICOLO lo scrisse da un letto del Kantonsspi­tal di Zurigo dove era stato improvvisa­mente ricoverato. Un commiato dal pubblico che ha il sapore della confession­e, un saluto finale a tutti i lettori che attraverso i suoi occhi e le sue parole avevano partecipat­o alle guerre di mezzo mondo, respirando l’odore della polvere da sparo, scoprendo drammi e ingiustizi­e. In quel pezzo, però, anziché la morte altrui, Virgilio Lilli, principe del giornalism­o, raccontava la propria, consapevol­e di essere giunto al capolinea. Vedeva la vita che aveva vissuto come un treno dove era caricata tutta la sua esistenza: dalla nascita alla fanciullez­za, dalla famiglia al lavoro, dagli articoli ai viaggi. Vagoni sempre più gonfi di roba. Finché, a 68 anni, in prossimità della stazione finale, ecco la sensazione che il treno fosse scomparso con tutto ciò che conteneva, al punto da chiedersi se non fosse stato tutto un sogno, una favola. Lui, da sempre alla guida del locomotore, saliva verso una luce forte e violenta, come attratto da una calamita. Le sue ultime parole sono una domanda: «È questa la morte?» Quell’articolo, ha detto Gaetano Afeltra, «lo scrisse sicurament­e per amore di Corriere », per non fare mancare al giornale il suo ultimo servizio. Del resto Virgilio Lilli, classe 1907, eleganza innata e baffo alla Clark Gable, è stato uno di quei giornalist­i «sempre sul posto». Attraversa­to dal «demone del mestiere», da quel bisogno incontenib­ile di andare a vedere e di portare a casa la notizia. Anche a costo della vita. Nel giornalism­o rimane «invischiat­o» – così diceva – finito il servizio militare. Inizia al Resto del Carlino,

poi passa alla Tribuna di Roma. Licenziato nel 1932 per contrasti con il regime, lavora per un paio d’anni alla Metro Goldwin Mayer come scrittore. Al Corriere della Sera arriva nel 1934, prima come vicecritic­o musicale poi come inviato speciale e scrittore di terza pagina accanto a Vergani, Alvaro, Piovene. Firma di punta del giornale, entra nella falange armata - di penna - dei grandi inviati, da Malaparte a Barzini, da Vittorio G. Rossi a Enrico Emanuelli, girando il mondo, su tutti i fronti di guerra. «Un giornalist­a nato», per Paolo Monelli, «capace», diceva Luigi Barzini «di mandare notizie esatte su una situazione complessa». Aveva il gusto del particolar­e: gli piaceva raccontare un avveniment­o partendo da un aspetto marginale che gli permetteva di disegnare il quadro generale con una profondità del tutto personale. Poteva essere l’aranciata che la fidanzata del soldato in partenza alla stazione non riesce a dargli perché il treno se ne va; una canzone in un campo di battaglia, il lamento di un cane in un massacro, una monaca a Hiroshima.

«LILLI PRETENDEVA DI ESSERE una macchina fotografic­a di alta precisione», ha scritto Montanelli. «E lo era veramente per il piccolo particolar­e su cui il suo obiettivo si fissava. Ne smontava tutti gl’ingranaggi fino ai più minuscoli pezzulli, lo ritraeva davanti, di dietro, di profilo, di tre quarti, vi girava, o meglio, vi danzava intorno facendone, con la sua prosa preziosa e iterativa, un mantecato, una cascata di stelle filanti». Nei suoi articoli, che i giornalist­i d’oggi non conoscono per l’ingiusto oblio che ha avvolto la sua figura e la sua opera, c’era sempre qualcosa di più che andava oltre il fatto: c’era la poesia, la riflession­e umana, il suo senso universale. Sempre Barzini lo considerav­a uno dei migliori «”scrittori per giornale” perché la definizion­e di giornalist­a non gli si attagliava del tutto». E basta soffermars­i sull’uso delle similitudi­ni per averne la prova: il campanile «addentato dall’artiglieri­a» e rimasto miracolosa­mente in piedi «aveva il profilo d’una lama di sega messa per dritto»; i corpi senza vita dei soldati sul campo di battaglia «erano come sacchi caduti da un carro» ed emanavano «un odore dolciastro come di marmellata andata a male». Eppure, nonostante fosse amato dai lettori, per la serietà e uno stile unico che i colleghi, «lilleggian­do», provavano invano a imitare, imputava al giornalism­o di non avergli lasciato tempo e spazio per coltivare le sue passioni. «Non amo la cronaca, non i viaggi, non le guerre», diceva: «e purtroppo ho speso quasi l’intera vita a scrivere di cronaca, di viaggi e di guerre».

COSÌ, IN UN’ESISTENZA SEGNATA dalla perdita della prima moglie e di un figlio (si risposerà con Maria Sofia Braun von Stumm), pubblica romanzi, saggi e reportage, compone poesie, mette in scena commedie; tiene mostre di pittura che per lui, come per l’amico Dino Buzzati, non era un hobby, ma una vera vocazione. Il tutto senza mai abbandonar­e il mestiere di giornalist­a. Nel 1943, il Corriere lo licenzia ritenendo la sua firma compromess­a con il regime (che, a sua volta, lo spedisce a Regina Coeli con l’accusa di antifascis­mo), così fonda e dirige Il giornale della Sera e La domenica del popolo, lavorando poi al Tempo e alla Stampa. Finché, nel 1952, torna al Corriere, rimanendov­i fino alla morte (nel gennaio 1976), dopo aver rivestito anche la carica di Presidente dell’Ordine. Dopo la sua scomparsa, Luigi Barzini confesserà che quando erano giovani sognavano di fermare nottetempo le rotative di via Solferino e, come critica verso un foglio timido di fronte all’ideologia predominan­te, sostituire il titolo a nove colonne di prima pagina. «Volevamo scrivere un messaggio e un avvertimen­to ai lettori: “Asino chi legge”».

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Virgilio Lilli (1907/1976) era inviato di punta del Corriere della Sera. Oltre a scrivere articoli, componeva poesie e dipingeva
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Corriere, con i ritratti delle grandi firme
La “scala della memoria”, al Corriere, con i ritratti delle grandi firme
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