MANO LIBERA
29 Con chi starebbe oggi il cattivo maestro Gianfranco Miglio?
«SIAMO VICINI AL CRACK. Sarà inevitabile. E finalmente qualcosa accadrà. Sarà un bel giorno il dì che le piazze si solleveranno e gli italiani circoleranno con gli schioppi oleati. Magari spareranno a me, magari anche a lei. Ma sarà un periodo splendido». Magari non immaginava il ribaltone di questi giorni e men che meno la nascita e il trionfo del Movimento 5 Stelle (anche se il «VaffaDay» l’avrebbe forse divertito) ma Gianfranco Miglio raccontò diversi anni fa a Renato Farina di aspettarsi davvero uno sconquasso. E potete scommettere che lassù, sulla nuvoletta dove risiede dal 2001 (ammesso che una nuvoletta gli sia stata concessa, pur avendo detto bestialità terrificanti come «Hitler commise degli errori di stile»), si diverte un mondo a vedere il caos post elettorale. E avendo sempre avuto una certa sovrastima di se stesso, lo considera senz’altro un omaggio degli arrabbiati d’ogni colore a lui, nel centenario della nascita. I due estremismi, grillino e leghista, lo divertirebbero. Teorizzava infatti, ghignando, che «la guerra civile è la buona guerra». E che in certi frangenti occorre tagliare corto. Al punto che, mentre scoppiava Tangentopoli, si spinse a dire in una intervista a Gianluigi Da Rold che «il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola. C’è la giustizia dei legulei, che è il modo per imbrogliare il prossimo e c’è la giustizia popolare». Perché se «il sistema non garantisce più la giustizia, è il popolo che si appropria del diritto di punire». Certo, ammetteva che «il linciaggio è un fatto estremo e riprovevole, per etica e stile» che lui non condivideva, «ma se questa classe politica di criminali non se ne va, si entra in una fase rivoluzionaria e allora i gesti rivoluzionari vanno compresi». Di più: «Siamo in una fase prerivoluzionaria. Questa classe politica sta rischiando di andare incontro alla giustizia rivoluzionaria, se non se ne va. E la giustizia rivoluzionaria è sempre sommaria». Così era, il professor Tuono. Che viveva in una casa a Domaso, Como, costruita «in stile lariano verso sud, valtellinese a nord-est, engadinese a nord-ovest» e tappezzata anche sui chiavistelli di «M» come Miglio, Migliore, Magnifico, Massimo, Mefistofelico. Ogni tanto, ammiccava compiaciuto, gli telefona qualche cronista: «Professore, mi spari una battutaccia carogna delle sue». E lui sparava: «Sono nato carogna. Non è una posizione che ho scelto. Me la sono trovata addosso». Con chi starebbe, oggi? Mah… Cambiò così spesso posizioni nella sua vita che non è facile immaginarlo. Con la stessa Lega, che lo considera un po’ l’ideologo di famiglia, arrivò ad avere rapporti pessimi e a bollare Bossi come «un ignorante sesquipedale, un mostriciattolo prodotto da un’avventura da analfabeti». Difficilmente però, a naso, potrebbe riconoscersi nei grillini. Tanto più dopo il trionfo nel Sud trainato dalla promessa del reddito di cittadinanza che Beppe Grillo ha rafforzato col reddito per «diritto di nascita». Fiero di «non avere una goccia di sangue meridionale», sosteneva che «l’uomo del Sud concepisce la vita come la descriveva Tacito nella “Germania”: un ozio prolungato, anzi, un otium condito di sfizi, di hobbies, di sensazioni, senza fare niente che affatichi. Questo è Ulisse, questo è De Mita. Questo è il Mezzogiorno...» Razzista? Negava. Ma poi ghignava: «Se si può non essere razzisti? No, almeno in una società evoluta». A proposito di cattivi maestri…