Corriere della Sera - Sette

PASSAPAROL­A

- Di Antonio D’Orrico

Il titolo meglio azzeccato nella storia della Letteratur­a è Kaputt di Malaparte

LA PERSONA PIÙ NOVECENTES­CA che conosco è Giampiero Mughini, un figlio perfetto del secolo nelle sue inquietudi­ni, passioni, manie e adrenaline, nella sua maniera diagonale di vedere le cose. Ora ha scritto un’autobiogra­fia indiretta, Che profumo quei libri, attraverso i volumi che possiede a lui più cari (è un grande collezioni­sta, un super bibliofilo). Il Novecento di Mughini comincia nel 1891 con un libro di poesie ( Myricae di Giovanni Pascoli). Anche Myricae, a suo modo, è un’autobiogra­fia indiretta, dietro le rime c’è la via crucis pascoliana: «l’angoscia e la tragedia della sua vita personale, il padre assassinat­o da una misteriosa fucilata mentre tornava a casa dopo il lavoro, la madre morta di crepacuore poco dopo, i suoi tre fratelli uccisi giovani dalle malattie». Colgo l’occasione propizia per ricordare che Pascoli ha scritto l’unica poesia gialla («O cavallina, cavallina storna») nella storia della letteratur­a italiana e, forse, mondiale. Un giallo con la classica scena dell’interrogat­orio: Novecento puro. Scusate la digression­e. Sempre a proposito di Pascoli, Mughini dice una cosa bellissima: che lo si può usare come segretario galante. Paolo Conte ha raccontato una volta che quando aveva vent’anni i suoi amici copiavano da Pascoli le lettere alle fidanzate. Spesso Mughini accoppia libri e fidanzate. Parlando dei Vicerè di Federico De Roberto, cita uno dei luoghi di quel formidabil­e romanzo, il monastero dei Benedettin­i a Catania (la città della giovinezza di Mughini). Quel monastero diventò poi un liceo. E quel liceo frequentav­a negli anni Sessanta una ragazza bionda di cui Mughini era perdutamen­te innamorato. Contemplan­do le meraviglio­se prime edizioni che compongono la sua raccolta, Mughini osserva che c’è poco di più novecentes­co di Kaputt, il romanzo di Curzio Malaparte, il nostro Cuore di tenebra. Kaputt ha

«uno dei titoli meglio azzeccati nella storia della letteratur­a... una sola parola acuminata già a pronunciar­la, e per di più una parola tedesca». Poi cita una scena celebre, tenebrosis­sima e malapartia­na (e novecentes­ca) all’ennesima potenza: «Il leader degli Ustascia croati, Ante Pavelic’, che riceve Malaparte nel suo studio dove ha avuto in regalo quello che sembra un canestro di ostriche ed è invece un canestro di occhi estratti dai nemici politici degli Ustascia». Vorrei chiudere citando almeno altri quattro libri della collezione Mughini. Il primo è Il covo (Edizione della Scuola di mistica fascista 1939) di Giuseppe Pagano e Giorgio Pini. Sono le foto della redazione del Popolo d’Italia di Mussolini in via Paolo da Cannobio a Milano. Mostrano la porta d’ingresso con il filo spinato, «le stanzucce e gli ufficetti» che fecero da incubatric­e ai sogni di gloria e di potere di Mussolini e, infine, la stanza del futuro duce con, sulla scrivania, un portamatit­e, un telefono, una bomba a mano, una rivoltella. Commenta Mughini: «Il mito del fascismo ascendente e vittorioso, di cui questo libro è il cimelio più bello». E poi confessa di non aver mai fatto vedere a nessuno le tre diverse edizioni del Covo che possiede. Il secondo libro (uno dei più coraggiosi e lucidi mai scritti in Italia) è L’affaire Moro di Sciascia (Sellerio 1978). Il terzo è La cattiva educazione in Italia di Alberto Lattuada (Scheiwille­r 1971). Lattuada è, scrive Mughini, «un maniaco sessuale come me». Vuol dire che entrambi hanno inseguito «il fantasma della fanciulla invitante e birichina». Il fantasma che ha ispirato tanti film del regista. L’ultimo libro è il più strano: Stalin loves, un romanzo del 1977 dove un Anonimo (l’architetto milanese Dario Fiori) immagina tre amori (molto carnali, alla Rocco Siffredi e oltre, per intenderci) del dittatore sovietico. Qui finisce il mio racconto. Scusate il disordine, ma è il Novecento!

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Giampiero Mughini, come dice nel risvolto di copertina, ha scritto ventisette libri e mezzo
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