PASSAPAROLA
Il titolo meglio azzeccato nella storia della Letteratura è Kaputt di Malaparte
LA PERSONA PIÙ NOVECENTESCA che conosco è Giampiero Mughini, un figlio perfetto del secolo nelle sue inquietudini, passioni, manie e adrenaline, nella sua maniera diagonale di vedere le cose. Ora ha scritto un’autobiografia indiretta, Che profumo quei libri, attraverso i volumi che possiede a lui più cari (è un grande collezionista, un super bibliofilo). Il Novecento di Mughini comincia nel 1891 con un libro di poesie ( Myricae di Giovanni Pascoli). Anche Myricae, a suo modo, è un’autobiografia indiretta, dietro le rime c’è la via crucis pascoliana: «l’angoscia e la tragedia della sua vita personale, il padre assassinato da una misteriosa fucilata mentre tornava a casa dopo il lavoro, la madre morta di crepacuore poco dopo, i suoi tre fratelli uccisi giovani dalle malattie». Colgo l’occasione propizia per ricordare che Pascoli ha scritto l’unica poesia gialla («O cavallina, cavallina storna») nella storia della letteratura italiana e, forse, mondiale. Un giallo con la classica scena dell’interrogatorio: Novecento puro. Scusate la digressione. Sempre a proposito di Pascoli, Mughini dice una cosa bellissima: che lo si può usare come segretario galante. Paolo Conte ha raccontato una volta che quando aveva vent’anni i suoi amici copiavano da Pascoli le lettere alle fidanzate. Spesso Mughini accoppia libri e fidanzate. Parlando dei Vicerè di Federico De Roberto, cita uno dei luoghi di quel formidabile romanzo, il monastero dei Benedettini a Catania (la città della giovinezza di Mughini). Quel monastero diventò poi un liceo. E quel liceo frequentava negli anni Sessanta una ragazza bionda di cui Mughini era perdutamente innamorato. Contemplando le meravigliose prime edizioni che compongono la sua raccolta, Mughini osserva che c’è poco di più novecentesco di Kaputt, il romanzo di Curzio Malaparte, il nostro Cuore di tenebra. Kaputt ha
«uno dei titoli meglio azzeccati nella storia della letteratura... una sola parola acuminata già a pronunciarla, e per di più una parola tedesca». Poi cita una scena celebre, tenebrosissima e malapartiana (e novecentesca) all’ennesima potenza: «Il leader degli Ustascia croati, Ante Pavelic’, che riceve Malaparte nel suo studio dove ha avuto in regalo quello che sembra un canestro di ostriche ed è invece un canestro di occhi estratti dai nemici politici degli Ustascia». Vorrei chiudere citando almeno altri quattro libri della collezione Mughini. Il primo è Il covo (Edizione della Scuola di mistica fascista 1939) di Giuseppe Pagano e Giorgio Pini. Sono le foto della redazione del Popolo d’Italia di Mussolini in via Paolo da Cannobio a Milano. Mostrano la porta d’ingresso con il filo spinato, «le stanzucce e gli ufficetti» che fecero da incubatrice ai sogni di gloria e di potere di Mussolini e, infine, la stanza del futuro duce con, sulla scrivania, un portamatite, un telefono, una bomba a mano, una rivoltella. Commenta Mughini: «Il mito del fascismo ascendente e vittorioso, di cui questo libro è il cimelio più bello». E poi confessa di non aver mai fatto vedere a nessuno le tre diverse edizioni del Covo che possiede. Il secondo libro (uno dei più coraggiosi e lucidi mai scritti in Italia) è L’affaire Moro di Sciascia (Sellerio 1978). Il terzo è La cattiva educazione in Italia di Alberto Lattuada (Scheiwiller 1971). Lattuada è, scrive Mughini, «un maniaco sessuale come me». Vuol dire che entrambi hanno inseguito «il fantasma della fanciulla invitante e birichina». Il fantasma che ha ispirato tanti film del regista. L’ultimo libro è il più strano: Stalin loves, un romanzo del 1977 dove un Anonimo (l’architetto milanese Dario Fiori) immagina tre amori (molto carnali, alla Rocco Siffredi e oltre, per intenderci) del dittatore sovietico. Qui finisce il mio racconto. Scusate il disordine, ma è il Novecento!