Nero su Bianco
Sullo sfondo di una natura splendida, gelida e immacolata, si incrociano destini diversi: quello del popolo Sami, dei residenti svedesi, di immigrati e rifugiati dall’Africa e dal Medio Oriente
ÖSTERJÖRN (SVEZIA) – Sono rimaste poche zone selvagge sulla Terra, soprattutto in Europa, dove la natura può ancora insegnare qualcosa agli uomini. Forse anche come stare al mondo, e non solo tirare a campare. Una di queste è il nord della Svezia. Le regioni del Västerbotten e del Norrbotten si estendono per 165.883 chilometri quadrati, un po’ più della metà dell’Italia. Ci vivono 513mila persone e il loro numero sta diminuendo: i giovani da diversi anni si trasferiscono nelle città. Qui si è progressivamente incrinata quell’“economia del bosco” che con caccia, pesca, legname in quantità ragionevole, raccolta di mirtilli e piccole coltivazioni di ortaggi, garantiva una dignitosa qualità della vita a tutti. Il business di foreste sterminate, miniere d’oro, argento, ferro, rame, e poi dighe e strade, sta chiudendo in angoli sempre più stretti gli abitanti di questa terra. D’inverno, quando il sole tramonta intorno alle cinque e mezzo in questi giorni, se la temperatura è inferiore a -25°, un fascio di luce è proiettato verso l’alto, per un fenomeno di cristallizzazione dell’aria, come una discoteca che attira clientela nell’Universo. Lo stesso fanno anche i fari delle automobili, sempre che uno abbia la fortuna, rara, di vederne arrivare una all’orizzonte: si vedono due tubi di luce che puntano in verticale, e tornano a essere fari di una macchina solo quando questa arriva a 100 metri. In quest’area resa candida da una
neve che copre tutto – mare, laghi e fiumi – e talvolta illuminata dalle aurore boreali, si stanno incrociando diversi destini. C’è il popolo indigeno dei Sami. Ci sono, da secoli, gli svedesi. Da qualche anno sono arrivati somali, etiopi, eritrei, iraniani, afghani, turchi, srilankesi, keniani, indiani, siriani, senegalesi, botswanesi, sudanesi, albanesi, messicani. Sono rifu-
giati politici, o semplici immigrati, regolarmente accolti dal Paese che ha avuto le porte più aperte d’Europa. Ma ora ha qualche dubbio. Soprattutto in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 9 settembre. Gli extracomunitari residenti in Svezia sono 1.145.100, l’11,6% della popolazione (dati Eurostat). La commedia umana, visto l’ancestra- le sfondo nordico nel quale si svolge, risalta più che altrove. I maestri di vita, da queste parti, sono rimasti i Sami. Basta vedere come camminano nella neve, o guidano le motoslitte, ma anche gli svedesi se la cavano bene. Per loro «non ci sono buone o cattive stagioni, ma solo buoni o cattivi abbigliamenti». Le mamme, che piova, nevichi o tiri vento, difficilmen- te tengono a casa i bambini. A scuola, se le distanze lo consentono, a seconda della stagione ci vanno con gli sci, i pattini, o uno slittino che funziona come un monopattino. Si impara a crescere, e a non commettere errori. L’orienteering è nato in Svezia e lo si insegna a scuola. A otto anni, in coppie di due, cominciano a muoversi nel bosco seguendo i segnali messi dagli
I Sami in Svezia sono circa ventimila. Meno di mille riescono ancora a vivere allevando renne. Deforestazione e cambiamenti climatici stanno alterando i ritmi della vita seminomade
insegnanti per imparare a tenere la direzione giusta. A due di loro, poco tempo fa, è capitato un imprevisto: hanno visto un orso. «Nonno» ha raccontato uno dei due, «non ho mai corso così in vita mia». Ma incidenti con gli animali, comunque, sono rari. Qui si muore per altro. Se si guasta la motoslitta e si scarica il cellulare, che a -20° ha ben poca autonomia. Oppure perché il ghiaccio tradisce chi credeva di passarci sopra senza problemi. Chi si perde è perduto. La prima regola è: mai andare da soli. Questo ha contribuito a fare in modo che gli svedesi abbiano capito che l’unione fa davvero la forza, o perlomeno permette di non essere troppo deboli. Nei Byågarden, le case sociali, ci si incontra per vedere partite di hockey, film, per festeggiare anniversari, o matrimoni, o ricordare defunti. Oppure per ospitare amici di passaggio. In mezzo al freddo, forse anche per istinto, si tiene caldo il valore della comunità: tutti si aiutano, se c’è bisogno. Per ora, visto che le cose stanno cambiando anche qui.
LE CASE, POCHE, DIPINTE DI ROSSO, verde e giallo, sono di legno e colorano lo sfondo uniforme che si perde all’orizzonte. Non si vedono villoni da ricchi. «La Svezia non ha mai pensato al socialismo reale» dice Edoardo Miola, il fotografo autore delle immagini di questo servizio, «ma ha realizzato un po’ di socialismo». Lui vive una buona parte dell’anno in mezzo a questo paesaggio. È diventato un po’ svedese anche lui, e ne ha preso la cittadinanza. In questo Paese si dà del “tu” a tutti, anche al primo ministro. Il “lei” non esiste. Il “voi” è consigliato solo se si parla con persone molto più anziane, ed è obbligatorio se ci si rivolge a membri della famiglia reale.
Tra le poche persone che si vedono in giro si notano i volti più scuri di chi non è nato quassù. Heifsa, una ragazza somala di 18 anni, è arrivata con un volo dall’Uganda a Stoccolma, dove c’era già sua sorella maggiore. Era il giugno del 2015. La prima notte, vista la luce, si è svegliata a mezzanotte per fare colazione, pensando fosse mattina. Tutti i giorni adesso va a scuola di lingue a Skellefteä, unica cittadina della zona, con 32mila abitanti. «Non mi trovo male, mi piace studiare e ci sono molti giovani che arrivano dal mio Paese. Mi sto abituando un po’ al freddo, anche se il primo inverno è stato molto duro». Mohammed, 17 anni, conosceva la sorella di Heifsa già in Somalia. Per una strana provvidenza dell’improbabilità, si sono ritrovati qui e ora vivono tutti e tre insieme. Lui era arrivato prima di loro due e si era già ambientato abbastanza bene: «Gli svedesi, tranne qualche eccezione, sono accoglienti». Sicuramente lo sono Astrid e Ingrid Nystrom,ˉ due sorelle 50enni, entrambe sposate, e con figli: «Con alcuni rifugiati cristiani che abbiamo conosciuto in chiesa, abbiamo stretto dei bellissimi rapporti. Degli altri però sappiamo poco o nulla. Il timore è che la coesistenza ravvicinata tra chi è stato in conflitto, come ad esempio etiopi ed eritrei, possa forse creare tensioni».
A BOLIDEN, SU 1.500 RESIDENTI circa un terzo non è svedese. A molti sono state assegnate le case abbandonate dai minatori. Uno che a Boliden sembra nato, se non fosse per i
lineamenti, e che si trova benissimo è Mohammed Al-Sheleh, siriano, 36 anni. Faceva il cuoco sulle navi mercantili. Ha girato il mondo, poi, nel 2010, ha deciso di tornare con i piedi sulla terra. Non quella del suo Paese: prima un anno a Marsiglia, quindi Stoccolma, dove c’erano già i suoi parenti. Ora, da due anni, è più a nord dove, con i soldi risparmiati, ha aper- to lo Shadi Livs, un mini bazar dove si trova di tutto. La clientela non gli manca, gli affari vanno bene, e gli amici entrano per fargli compagnia. «Non c’è confronto con la vita di città. Qui va molto meglio. Tutto è più semplice, anche i rapporti con gli svedesi». A chi ne ha bisogno, fa credito. «Ci dobbiamo sempre aiutare l’un l’altro». Anche se come lui ci sono altri rifugiati che si trovano bene, forse perché arrivano spinti da Paesi dove sopravvivere era un’impresa, molti volti scuri, o velati, testimoniano che la vita into the wild per loro resta difficile.
CHI QUESTO problema non deve affrontarlo è il popolo Sami. Ne hanno avuti molti altri, in compenso. Nel
mondo vengono ancora chiamati lapponi, forse senza sapere che significa “uomini di pezza”. Negli Anni 20 venivano usati come razza da studiare, e da esibire, per dimostrare la superiorità di quella ariana. Migliaia di donne vennero sterilizzate, i tamburi usati dagli sciamani furono sequestrati e bruciati, la loro lingua proibita. Così come gli joik, le loro canzoni: ognuno ne aveva una personale, una specie di carta d’identità musicale. I Sami però sono sopravvissuti e restano orgogliosi della loro cultura. Ora avrebbero molto da insegnare, se qualcuno li ascoltasse.
LA LORO LINGUA è tornata nelle scuole, anche se solo per 40 minuti alla settimana. Ma i pascoli per le loro renne restano minacciati da tutto: cambiamento climatico, interessi commerciali e multinazionali sul legname e sulle miniere. Kiruna, la città più settentrionale del Paese, dove vivono 20mila abitanti, sta per essere spostata di tre chilometri perché l’espansione sotterranea della vicina miniera di ferro ne compromette la stabilità. Tutto rischia di
Rifugiati e immigrati fanno ormai parte della popolazione. Alcuni si trovano bene, ma per molti resta la difficoltà di adattarsi a un salto climatico che può superare i 60 gradi
alterare la natura nella quale questi indigeni avevano trovato equilibrio con una vita seminomade, ritmata dalla transumanza delle renne. “Il popolo delle otto stagioni” – quattro sono poche per tenere il ritmo di ciò che accade nelle foreste – è composto da circa 100mila persone, che vivono nell’area settentrionale di Norvegia, Finlandia, penisola di Kola (in Russia) e Svezia, dove sono circa 20 mila. Meno di un migliaio quelli che non hanno rinunciato a fare gli allevatori di renne, filo conduttore della loro storia. «Da una decina d’anni gli sbalzi di temperatura in autunno creano uno strato di ghiaccio molto più spesso e gli animali non riescono più a romperlo con gli zoccoli per raggiungere i licheni che si trovano sot- to», spiega Michael Jonson, un Sami 50enne che, con il figlio Eric, non abbandona la sua vita tradizionale. «Ora dobbiamo portare tutti i giorni quintali di biada e integratori alimentari nei boschi per evitare che le renne muoiano».
VANNO DISTRIBUITI in spazi ampi, in modo che gli animali non si scontri-
no. Un costo e un’impresa massacrante, anche se fatta con le motoslitte. Il figlio Eric ricorda che, in passato, quando capitava un inverno difficile, «le renne trovavano comunque i licheni sui rami bassi degli alberi». Ora non più. Comunque, per questo ragazzo Sami di 25 anni, «una volta che fai l’allevatore di renne, continuerai a farlo. È bellissimo». Passando del tempo con loro, se non si muore assiderati, si capisce perché. Güllan fa parte della Siida, nome Sami che identifica la cooperativa di allevatori nella stessa zona, e anche lei è un’altra che non molla: «È diventato tutto terribilmente difficile, ma il mio equilibrio resta in questa vita».
SARA AJNNAK si è laureata in Storia dell’arte, ha lavorato nel Parlamento Sami, ed è una cantante che si è esibita di recente anche negli Usa. Ha già inciso due cd che hanno avuto successo e sta lavorando al terzo, ma ha deciso di tornare a fare quello che faceva da ragazza. Nei boschi, con le renne, pur continuando la sua carriera di cantante. Anzi: «Nella mia musica entrano i suoni della natura e il suo ritmo». I Sami sono in grado di distinguere le loro renne vedendo da lontano i minuscoli marchi sulle orecchie. Figurarsi se a loro sfuggono tante persone con la pelle nera in mezzo a tutto questo bianco. «Non ho avuto occasione di conoscere nessuno di loro» dice Sara. «Da un lato penso che sia giusto accogliere sempre chi è in difficoltà. Dall’altro mi spaventa pensare che, per ricevere questo aiuto, uno debba arrivare fin qui, in luoghi così lontani e diversi da quelli dove ha le sue radici». Saggezza Sami.