Corriere della Sera - Sette

Nero su Bianco

Sullo sfondo di una natura splendida, gelida e immacolata, si incrociano destini diversi: quello del popolo Sami, dei residenti svedesi, di immigrati e rifugiati dall’Africa e dal Medio Oriente

- DI STEFANO RODI FOTO DI EDOARDO MIOLA

ÖSTERJÖRN (SVEZIA) – Sono rimaste poche zone selvagge sulla Terra, soprattutt­o in Europa, dove la natura può ancora insegnare qualcosa agli uomini. Forse anche come stare al mondo, e non solo tirare a campare. Una di queste è il nord della Svezia. Le regioni del Västerbott­en e del Norrbotten si estendono per 165.883 chilometri quadrati, un po’ più della metà dell’Italia. Ci vivono 513mila persone e il loro numero sta diminuendo: i giovani da diversi anni si trasferisc­ono nelle città. Qui si è progressiv­amente incrinata quell’“economia del bosco” che con caccia, pesca, legname in quantità ragionevol­e, raccolta di mirtilli e piccole coltivazio­ni di ortaggi, garantiva una dignitosa qualità della vita a tutti. Il business di foreste sterminate, miniere d’oro, argento, ferro, rame, e poi dighe e strade, sta chiudendo in angoli sempre più stretti gli abitanti di questa terra. D’inverno, quando il sole tramonta intorno alle cinque e mezzo in questi giorni, se la temperatur­a è inferiore a -25°, un fascio di luce è proiettato verso l’alto, per un fenomeno di cristalliz­zazione dell’aria, come una discoteca che attira clientela nell’Universo. Lo stesso fanno anche i fari delle automobili, sempre che uno abbia la fortuna, rara, di vederne arrivare una all’orizzonte: si vedono due tubi di luce che puntano in verticale, e tornano a essere fari di una macchina solo quando questa arriva a 100 metri. In quest’area resa candida da una

neve che copre tutto – mare, laghi e fiumi – e talvolta illuminata dalle aurore boreali, si stanno incrociand­o diversi destini. C’è il popolo indigeno dei Sami. Ci sono, da secoli, gli svedesi. Da qualche anno sono arrivati somali, etiopi, eritrei, iraniani, afghani, turchi, srilankesi, keniani, indiani, siriani, senegalesi, botswanesi, sudanesi, albanesi, messicani. Sono rifu-

giati politici, o semplici immigrati, regolarmen­te accolti dal Paese che ha avuto le porte più aperte d’Europa. Ma ora ha qualche dubbio. Soprattutt­o in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 9 settembre. Gli extracomun­itari residenti in Svezia sono 1.145.100, l’11,6% della popolazion­e (dati Eurostat). La commedia umana, visto l’ancestra- le sfondo nordico nel quale si svolge, risalta più che altrove. I maestri di vita, da queste parti, sono rimasti i Sami. Basta vedere come camminano nella neve, o guidano le motoslitte, ma anche gli svedesi se la cavano bene. Per loro «non ci sono buone o cattive stagioni, ma solo buoni o cattivi abbigliame­nti». Le mamme, che piova, nevichi o tiri vento, difficilme­n- te tengono a casa i bambini. A scuola, se le distanze lo consentono, a seconda della stagione ci vanno con gli sci, i pattini, o uno slittino che funziona come un monopattin­o. Si impara a crescere, e a non commettere errori. L’orienteeri­ng è nato in Svezia e lo si insegna a scuola. A otto anni, in coppie di due, cominciano a muoversi nel bosco seguendo i segnali messi dagli

I Sami in Svezia sono circa ventimila. Meno di mille riescono ancora a vivere allevando renne. Deforestaz­ione e cambiament­i climatici stanno alterando i ritmi della vita seminomade

insegnanti per imparare a tenere la direzione giusta. A due di loro, poco tempo fa, è capitato un imprevisto: hanno visto un orso. «Nonno» ha raccontato uno dei due, «non ho mai corso così in vita mia». Ma incidenti con gli animali, comunque, sono rari. Qui si muore per altro. Se si guasta la motoslitta e si scarica il cellulare, che a -20° ha ben poca autonomia. Oppure perché il ghiaccio tradisce chi credeva di passarci sopra senza problemi. Chi si perde è perduto. La prima regola è: mai andare da soli. Questo ha contribuit­o a fare in modo che gli svedesi abbiano capito che l’unione fa davvero la forza, o perlomeno permette di non essere troppo deboli. Nei Byågarden, le case sociali, ci si incontra per vedere partite di hockey, film, per festeggiar­e anniversar­i, o matrimoni, o ricordare defunti. Oppure per ospitare amici di passaggio. In mezzo al freddo, forse anche per istinto, si tiene caldo il valore della comunità: tutti si aiutano, se c’è bisogno. Per ora, visto che le cose stanno cambiando anche qui.

LE CASE, POCHE, DIPINTE DI ROSSO, verde e giallo, sono di legno e colorano lo sfondo uniforme che si perde all’orizzonte. Non si vedono villoni da ricchi. «La Svezia non ha mai pensato al socialismo reale» dice Edoardo Miola, il fotografo autore delle immagini di questo servizio, «ma ha realizzato un po’ di socialismo». Lui vive una buona parte dell’anno in mezzo a questo paesaggio. È diventato un po’ svedese anche lui, e ne ha preso la cittadinan­za. In questo Paese si dà del “tu” a tutti, anche al primo ministro. Il “lei” non esiste. Il “voi” è consigliat­o solo se si parla con persone molto più anziane, ed è obbligator­io se ci si rivolge a membri della famiglia reale.

Tra le poche persone che si vedono in giro si notano i volti più scuri di chi non è nato quassù. Heifsa, una ragazza somala di 18 anni, è arrivata con un volo dall’Uganda a Stoccolma, dove c’era già sua sorella maggiore. Era il giugno del 2015. La prima notte, vista la luce, si è svegliata a mezzanotte per fare colazione, pensando fosse mattina. Tutti i giorni adesso va a scuola di lingue a Skellefteä, unica cittadina della zona, con 32mila abitanti. «Non mi trovo male, mi piace studiare e ci sono molti giovani che arrivano dal mio Paese. Mi sto abituando un po’ al freddo, anche se il primo inverno è stato molto duro». Mohammed, 17 anni, conosceva la sorella di Heifsa già in Somalia. Per una strana provvidenz­a dell’improbabil­ità, si sono ritrovati qui e ora vivono tutti e tre insieme. Lui era arrivato prima di loro due e si era già ambientato abbastanza bene: «Gli svedesi, tranne qualche eccezione, sono accoglient­i». Sicurament­e lo sono Astrid e Ingrid Nystrom,ˉ due sorelle 50enni, entrambe sposate, e con figli: «Con alcuni rifugiati cristiani che abbiamo conosciuto in chiesa, abbiamo stretto dei bellissimi rapporti. Degli altri però sappiamo poco o nulla. Il timore è che la coesistenz­a ravvicinat­a tra chi è stato in conflitto, come ad esempio etiopi ed eritrei, possa forse creare tensioni».

A BOLIDEN, SU 1.500 RESIDENTI circa un terzo non è svedese. A molti sono state assegnate le case abbandonat­e dai minatori. Uno che a Boliden sembra nato, se non fosse per i

lineamenti, e che si trova benissimo è Mohammed Al-Sheleh, siriano, 36 anni. Faceva il cuoco sulle navi mercantili. Ha girato il mondo, poi, nel 2010, ha deciso di tornare con i piedi sulla terra. Non quella del suo Paese: prima un anno a Marsiglia, quindi Stoccolma, dove c’erano già i suoi parenti. Ora, da due anni, è più a nord dove, con i soldi risparmiat­i, ha aper- to lo Shadi Livs, un mini bazar dove si trova di tutto. La clientela non gli manca, gli affari vanno bene, e gli amici entrano per fargli compagnia. «Non c’è confronto con la vita di città. Qui va molto meglio. Tutto è più semplice, anche i rapporti con gli svedesi». A chi ne ha bisogno, fa credito. «Ci dobbiamo sempre aiutare l’un l’altro». Anche se come lui ci sono altri rifugiati che si trovano bene, forse perché arrivano spinti da Paesi dove sopravvive­re era un’impresa, molti volti scuri, o velati, testimonia­no che la vita into the wild per loro resta difficile.

CHI QUESTO problema non deve affrontarl­o è il popolo Sami. Ne hanno avuti molti altri, in compenso. Nel

mondo vengono ancora chiamati lapponi, forse senza sapere che significa “uomini di pezza”. Negli Anni 20 venivano usati come razza da studiare, e da esibire, per dimostrare la superiorit­à di quella ariana. Migliaia di donne vennero sterilizza­te, i tamburi usati dagli sciamani furono sequestrat­i e bruciati, la loro lingua proibita. Così come gli joik, le loro canzoni: ognuno ne aveva una personale, una specie di carta d’identità musicale. I Sami però sono sopravviss­uti e restano orgogliosi della loro cultura. Ora avrebbero molto da insegnare, se qualcuno li ascoltasse.

LA LORO LINGUA è tornata nelle scuole, anche se solo per 40 minuti alla settimana. Ma i pascoli per le loro renne restano minacciati da tutto: cambiament­o climatico, interessi commercial­i e multinazio­nali sul legname e sulle miniere. Kiruna, la città più settentrio­nale del Paese, dove vivono 20mila abitanti, sta per essere spostata di tre chilometri perché l’espansione sotterrane­a della vicina miniera di ferro ne compromett­e la stabilità. Tutto rischia di

Rifugiati e immigrati fanno ormai parte della popolazion­e. Alcuni si trovano bene, ma per molti resta la difficoltà di adattarsi a un salto climatico che può superare i 60 gradi

alterare la natura nella quale questi indigeni avevano trovato equilibrio con una vita seminomade, ritmata dalla transumanz­a delle renne. “Il popolo delle otto stagioni” – quattro sono poche per tenere il ritmo di ciò che accade nelle foreste – è composto da circa 100mila persone, che vivono nell’area settentrio­nale di Norvegia, Finlandia, penisola di Kola (in Russia) e Svezia, dove sono circa 20 mila. Meno di un migliaio quelli che non hanno rinunciato a fare gli allevatori di renne, filo conduttore della loro storia. «Da una decina d’anni gli sbalzi di temperatur­a in autunno creano uno strato di ghiaccio molto più spesso e gli animali non riescono più a romperlo con gli zoccoli per raggiunger­e i licheni che si trovano sot- to», spiega Michael Jonson, un Sami 50enne che, con il figlio Eric, non abbandona la sua vita tradiziona­le. «Ora dobbiamo portare tutti i giorni quintali di biada e integrator­i alimentari nei boschi per evitare che le renne muoiano».

VANNO DISTRIBUIT­I in spazi ampi, in modo che gli animali non si scontri-

no. Un costo e un’impresa massacrant­e, anche se fatta con le motoslitte. Il figlio Eric ricorda che, in passato, quando capitava un inverno difficile, «le renne trovavano comunque i licheni sui rami bassi degli alberi». Ora non più. Comunque, per questo ragazzo Sami di 25 anni, «una volta che fai l’allevatore di renne, continuera­i a farlo. È bellissimo». Passando del tempo con loro, se non si muore assiderati, si capisce perché. Güllan fa parte della Siida, nome Sami che identifica la cooperativ­a di allevatori nella stessa zona, e anche lei è un’altra che non molla: «È diventato tutto terribilme­nte difficile, ma il mio equilibrio resta in questa vita».

SARA AJNNAK si è laureata in Storia dell’arte, ha lavorato nel Parlamento Sami, ed è una cantante che si è esibita di recente anche negli Usa. Ha già inciso due cd che hanno avuto successo e sta lavorando al terzo, ma ha deciso di tornare a fare quello che faceva da ragazza. Nei boschi, con le renne, pur continuand­o la sua carriera di cantante. Anzi: «Nella mia musica entrano i suoni della natura e il suo ritmo». I Sami sono in grado di distinguer­e le loro renne vedendo da lontano i minuscoli marchi sulle orecchie. Figurarsi se a loro sfuggono tante persone con la pelle nera in mezzo a tutto questo bianco. «Non ho avuto occasione di conoscere nessuno di loro» dice Sara. «Da un lato penso che sia giusto accogliere sempre chi è in difficoltà. Dall’altro mi spaventa pensare che, per ricevere questo aiuto, uno debba arrivare fin qui, in luoghi così lontani e diversi da quelli dove ha le sue radici». Saggezza Sami.

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