Animali preoccupati
Selvaggi e rari. Alcune specie vivono in ambienti difficili da raggiungere, ma l’obiettivo di Tim Flach è penetrato nel loro misterioso universo. Cogliendo, in questi ritratti, un aspetto umanoide. Sembrano porsi domande inquietanti sul loro destino. Non
DA CHE COSA SI PUÒ vedere la preoccupazione degli animali? Vedere è eccessivo, diciamo intuire, capire, cogliere. Dal profilo aguzzo dell’Aquila delle scimmie, attento ma non così temerario come ci si potrebbe aspettare da un rapace. C’è qualcosa, in quel becco in discesa, che la rende fragile e pensierosa, mentre l’occhio è vigile verso la minaccia incombente del bracconiere convinto, per antico pregiudizio, che dietro alla sua eleganza neoclassica si cela non l’uccello che divorò il fegato di Prometeo ma un banale ladro di galline. Da che cosa si intuisce la preoccupazione del rinoceronte bianco settentrionale? Dal piccolo occhio nero incastonato in tutto quel gigantesco corrugamento facciale? Lo saprà, il rinoceronte bianco, di essere uno degli ultimi tre esemplari in vita? Cosa può sapere del suo destino? Quel che sappiamo noi è che a 43 anni non può avere memoria del tempo in cui, fino al 1960, i suoi antenati si spostavano in branchi per tutta l’Africa centrale ed erano tanti e forse felici con i loro corni intatti, destinati a diventare merce pregiata sul mercato nero, venduti da cacciatori senza scrupoli. «In questo libro – scrive il fotografo Tim Flach – parliamo di animali in pericolo, ma siamo sicuri
che in pericolo siano solo loro?». Dunque, il loro pericolo potrebbe essere anche il nostro, ma non ne abbiamo una coscienza sufficiente. Né del nostro né del loro. E andiamo avanti senza badare alla malinconia del corallo o dell’orso polare, al punto da aggiungere minacce alle minacce, pericoli ai pericoli. «Le bestie non sono così bestie come si pensa», scrisse Molière, e non c’è da dubitarne osservando l’espressione assorta, quasi filosofica, del Tamarino calvo: la sua testa da anziano benedettino trecentesco che sembra concentrata su un manoscritto miniato medievale come fosse un personaggio uscito dal Nome della rosa. A cosa pensa questo antico primate amazzonico, abituato alla foresta fluviale, da quando il suo habitat è stato asfaltato esponendolo ai veleni del traffico e delle linee elettriche di Manaus?
AL NASO TRISTE della Saiga tatarica, che sembra disegnato da un cubista con le sue narici tubolari
Ho parlato a una capra / Era sola sul prato, era legata. / Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. / Quell’uguale belato era fraterno / al mio dolore. (...) / ha una voce e non varia. (Umberto Saba, La capra)
che le servono per resistere alle steppe della Mongolia, si aggiunge l’inquietudine interrogativa degli occhi: come un allarme o la richiesta di aiuto per questa antilope bianca che sin dalla preistoria è stata preda dei cacciatori attratti dalla sua carne e dalle sue corna. Pensare che ciò che per secoli non ha potuto il frodo lo possono da qualche anno i cambiamenti climatici e le epidemie, che hanno indebolito il suo sistema immunitario fino a metterne a repentaglio la sopravvivenza. Triste o piuttosto imbronciata? Le si legge addosso un tenero risentimento appeso alla nostra buona volontà. Come il Rinopiteco bruno: con la sua sproporzione facciale, speculare rispetto a quella della povera Saiga: due minime feritoie per naso sopra labbroni rossi che sembrano usciti dal laboratorio di un chirurgo plastico un po’ sprovveduto. Per non dire della smorfia impressa tra gli occhi umani e familiari di perplessa consapevolezza.
L’OPPOSTO DELLA DIFFIDENZA che ispira il lungo sorriso intimidatorio del Gaviale del Gange, al quale verrebbe voglia di dire sul muso: arrangiati caro, non muoverò un dito per te, anche perché ho il sospetto che non appena lo muoverò ci metterai un attimo ad addentarlo. Chi lo direbbe che invece è lui, questo rettile primitivo, il minacciato: Tim Flach lo sa ed è andato in Florida apposta per fotografare il giovane Makara, nato nel giugno 2016, primo Gaviale a venire alla luce in cattività fuori dai suoi luoghi d’origine. A sei mesi misurava come il braccio di un uomo, ma arriverà a raggiungere i sei metri, come i suoi duecento simili ospitati in due grandi santuari dell’India settentrionale. Duecento e non più duecento. E pensare che erano quasi diecimila negli anni Quaranta: la sua pelle e le sue uova pregiate lo hanno consegnato alla persecuzione dei pescatori. Ben più implacabile del suo sorriso minatorio.