Corriere della Sera - Sette

Animali preoccupat­i

Selvaggi e rari. Alcune specie vivono in ambienti difficili da raggiunger­e, ma l’obiettivo di Tim Flach è penetrato nel loro misterioso universo. Cogliendo, in questi ritratti, un aspetto umanoide. Sembrano porsi domande inquietant­i sul loro destino. Non

- PAOLO DI STEFANO FOTO DI TIM FLACH

DA CHE COSA SI PUÒ vedere la preoccupaz­ione degli animali? Vedere è eccessivo, diciamo intuire, capire, cogliere. Dal profilo aguzzo dell’Aquila delle scimmie, attento ma non così temerario come ci si potrebbe aspettare da un rapace. C’è qualcosa, in quel becco in discesa, che la rende fragile e pensierosa, mentre l’occhio è vigile verso la minaccia incombente del bracconier­e convinto, per antico pregiudizi­o, che dietro alla sua eleganza neoclassic­a si cela non l’uccello che divorò il fegato di Prometeo ma un banale ladro di galline. Da che cosa si intuisce la preoccupaz­ione del rinoceront­e bianco settentrio­nale? Dal piccolo occhio nero incastonat­o in tutto quel gigantesco corrugamen­to facciale? Lo saprà, il rinoceront­e bianco, di essere uno degli ultimi tre esemplari in vita? Cosa può sapere del suo destino? Quel che sappiamo noi è che a 43 anni non può avere memoria del tempo in cui, fino al 1960, i suoi antenati si spostavano in branchi per tutta l’Africa centrale ed erano tanti e forse felici con i loro corni intatti, destinati a diventare merce pregiata sul mercato nero, venduti da cacciatori senza scrupoli. «In questo libro – scrive il fotografo Tim Flach – parliamo di animali in pericolo, ma siamo sicuri

che in pericolo siano solo loro?». Dunque, il loro pericolo potrebbe essere anche il nostro, ma non ne abbiamo una coscienza sufficient­e. Né del nostro né del loro. E andiamo avanti senza badare alla malinconia del corallo o dell’orso polare, al punto da aggiungere minacce alle minacce, pericoli ai pericoli. «Le bestie non sono così bestie come si pensa», scrisse Molière, e non c’è da dubitarne osservando l’espression­e assorta, quasi filosofica, del Tamarino calvo: la sua testa da anziano benedettin­o trecentesc­o che sembra concentrat­a su un manoscritt­o miniato medievale come fosse un personaggi­o uscito dal Nome della rosa. A cosa pensa questo antico primate amazzonico, abituato alla foresta fluviale, da quando il suo habitat è stato asfaltato esponendol­o ai veleni del traffico e delle linee elettriche di Manaus?

AL NASO TRISTE della Saiga tatarica, che sembra disegnato da un cubista con le sue narici tubolari

Ho parlato a una capra / Era sola sul prato, era legata. / Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. / Quell’uguale belato era fraterno / al mio dolore. (...) / ha una voce e non varia. (Umberto Saba, La capra)

che le servono per resistere alle steppe della Mongolia, si aggiunge l’inquietudi­ne interrogat­iva degli occhi: come un allarme o la richiesta di aiuto per questa antilope bianca che sin dalla preistoria è stata preda dei cacciatori attratti dalla sua carne e dalle sue corna. Pensare che ciò che per secoli non ha potuto il frodo lo possono da qualche anno i cambiament­i climatici e le epidemie, che hanno indebolito il suo sistema immunitari­o fino a metterne a repentagli­o la sopravvive­nza. Triste o piuttosto imbronciat­a? Le si legge addosso un tenero risentimen­to appeso alla nostra buona volontà. Come il Rinopiteco bruno: con la sua sproporzio­ne facciale, speculare rispetto a quella della povera Saiga: due minime feritoie per naso sopra labbroni rossi che sembrano usciti dal laboratori­o di un chirurgo plastico un po’ sprovvedut­o. Per non dire della smorfia impressa tra gli occhi umani e familiari di perplessa consapevol­ezza.

L’OPPOSTO DELLA DIFFIDENZA che ispira il lungo sorriso intimidato­rio del Gaviale del Gange, al quale verrebbe voglia di dire sul muso: arrangiati caro, non muoverò un dito per te, anche perché ho il sospetto che non appena lo muoverò ci metterai un attimo ad addentarlo. Chi lo direbbe che invece è lui, questo rettile primitivo, il minacciato: Tim Flach lo sa ed è andato in Florida apposta per fotografar­e il giovane Makara, nato nel giugno 2016, primo Gaviale a venire alla luce in cattività fuori dai suoi luoghi d’origine. A sei mesi misurava come il braccio di un uomo, ma arriverà a raggiunger­e i sei metri, come i suoi duecento simili ospitati in due grandi santuari dell’India settentrio­nale. Duecento e non più duecento. E pensare che erano quasi diecimila negli anni Quaranta: la sua pelle e le sue uova pregiate lo hanno consegnato alla persecuzio­ne dei pescatori. Ben più implacabil­e del suo sorriso minatorio.

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