SCENE BUDDHISTE IN UN INTERNO
La saggezza (a colori) del Tibet
LA PAROLA È THONGDROL. Liberazione attraverso lo sguardo, liberazione attraverso quello che si vede. Vi aspirano i pellegrini buddhisti che si prosternano intorno ai templi. Osservare le immagini sacre annullandosi in un’esperienza spirituale che ripaga di tutto: il termine tibetano indica uno dei confini possibili tra mondo materiale e mondo trascendente. C’è il cammino, c’è la meta, c’è l’annullamento di sé. Un percorso che rimanda, nella tradizione occidentale, al potere dell’icona: l’immagine che parla, che istruisce, talvolta ammonisce. Il fotografo, e a sua volta devoto, Thomas Laird lo sintetizza così: «È la motivazione profonda dei dipinti murali del Tibet: la consapevolezza e l’illuminazione ultima attraverso il potere dell’arte». Le raffigurazioni conservate nei luoghi sacri del Tibet (così come nelle regioni del buddhismo lamaista: dalla Mongolia al Ladakh e all’Arunachal Pradesh indiani, dal Nepal alle aree tibetane della Cina occidentale) sono trattati di teologia in forma di figure. Rispondono a canoni rigorosi, dialogano con i testi sacri. Il fatto che poi, in particolare per il Tibet inteso
come regione autonoma della Cina, abbiano attraversato un turbolento secondo Novecento, li colloca in una dimensione di persistente precarietà. L’impresa di Laird, ora documentata da un monumentale volume pubblicato dall’editore tedesco Taschen e incoraggiata dal Dalai Lama, discende dunque da queste premesse: documentare, in un certo senso mappare, il patrimonio dei dipinti murali del Tibet. Salvarli.
IL POTALA E IL JOKHANG DI LHASA, Drepung e Gyantse Kumbum, Sakya, Dhrathang. Tutta una geografia vive nel percorso tracciato dalle immagini raccolte da Laird, che per il volume si è limitato appunto alla regione cinese del Tibet. Un rosario di località e di nomi che, in un rispecchiamento simbolico, pare evocare i rosari che scorrono fra le dita di monaci e pellegrini. Paradisi, inferni, pantheon variamente affollati, illuminazioni restituiscono un immaginario i cui livelli di lettura via via più sofisticati li mettono alla portata di tutti, dall’allevatore nomade dell’altipiano al lama reincarnato più istruito fino allo straniero digiuno di dottrina. Però Laird, oltre i pigmenti assediati dal tempo, ha colto il momento di fragile transizione, quasi
di sospensione che il Tibet sta attraversando. Occupato nel 1951 dalla Cina comunista, governato da Pechino con particolare intransigenza dopo i moti del 1959 e la fuga del Dalai Lama in India, devastato dalle Guardie rosse durante la Rivoluzione Culturale (196676), quindi sottoposto a uno sviluppo forzato «con caratteristiche cinesi», il Tibet vive una radicale crisi di identità. Così come non era un idilliaco regno spirituale la teocrazia abbattuta da Mao Zedong, allo stesso modo adesso non è un paradiso di modernità rispettosa dell’identità culturale e dell’ambiente. E le due fasi storiche si incarnano da una parte nella nascente borghesia autoctona in via di assimilazione (leggi: sinizzazione), che gode dei vantaggi indotti, e, dall’altra, nelle resistenze della popolazione e dei settori del clero buddhista che non accettano i modelli e le soluzioni imposti dal governo (in dieci anni nelle aree tibetane della Cina si sono date fuoco per protesta almeno 153 persone). Il punto di equilibrio è ancora il Dalai Lama. Che vive in esilio, ha rinunciato a ogni ruolo politico ma per Pechino è sempre arcinemico. È nel suo nome che resiste chi non accetta il potere cinese.
È UNA ZAVORRA per chi ha sposato la ricetta cinese. In mezzo, tra le opposte propagande, molte sfumature di indignazione e/o di pragmatismo. In luglio Sua Santità compirà 83 anni e Pechino ha già detto che la scelta del successore le compete. Per gli equilibri dell’universo culturale tibetano, dentro i confini storici e fuori (diaspora compresa), quel momento avrà conseguenze imprevedibili. Ma tutto su questo mondo è passeggero e vano, e forse la risposta è nascosta proprio nei dipinti murali, nella loro silenziosa saggezza colorata.