MANO LIBERA
Perché tuteliamo la privacy degli usurai?
« VEDEVO IL VOLTO di un uomo esposto alla gogna, spiato in ogni piega del labbro o contrazione delle mascelle, esposto al ludibrio di milioni di spettatori. Questo tipo di gogna vale un ergastolo». Sono passati 25 anni da quando Umberto Eco, all’inizio del 1993, scrisse quella Bustina di Minerva sul processo a Walter Armanini, il primo politico condannato nella stagione di Tangentopoli aperta dall’arresto di Mario Chiesa. Un quarto di secolo. Eppure, quelle parole dello scrittore sui limiti dell’ostensione al pubblico ludibrio del reo («stavo dalla sua parte», precisò, «non perché lo ritenessi innocente, ma per come era stato sbattuto in tv») riescono ancora a colpire. Riproponendo i dubbi sulla «sanzione morale» invocata come corredo agli arresti e alle condanne. Dubbi legittimi. Obbligatori. Eppure, davanti a certi reati particolarmente odiosi, è non meno legittimo avere il dubbio opposto: fino a che punto è giusto tutelare la privacy di certi figuri? Prendiamo l’usura, che certo non è mai, per sua stessa natura, dovuta a uno sfogo, un raptus, uno sbandamento momentaneo. Ma presuppone al contrario quattro dita di pelo sullo stomaco e il cinismo di perseguire con indifferente ferocia la rovina di persone fin sull’orlo del suicidio. Hanno davvero diritto, gli strozzini, all’anonimato che troppo spesso vien loro regalato? Pochi esempi recenti: «È di 1.338.727 euro il totale del denaro contante trovato nella disponibilità del 59enne
romano, funzionario del Dipartimento di Protezione Civile, ritenuto responsabile del reato di usura continuata, tentata estorsione ed esercizio abusivo di attività finanziaria, arrestato oggi dai carabinieri di San Pietro. I militari, per catalogare tutto il denaro rinvenuto nelle perquisizioni, hanno dovuto usare una macchina contasoldi e hanno impiegato quasi due ore…». Niente nome. «Prestiti a usura con interesse di oltre il 673%: con questa accusa un uomo di 45 anni è stato arrestato a Roma dai carabinieri, mentre un’altra persona è indagata a piede libero. (…) A fronte di una somma iniziale di 630.000 euro ricevuta dallo strozzino, la vittima (un imprenditore) ha ver- sato in sei anni 4.246.000 euro circa, con un tasso annuo del 112,33% circa. (..) Nel momento in cui la vittima non è riuscita, a causa delle difficoltà economiche, a corrispondere gli interessi pattuiti, lo strozzino è divenuto proprietario dei beni promessi al momento del prestito, dando esecuzione ai fittizi contratti di compravendita». Niente nome.
«BAGHERIA, prestiti con interessi usurari: arrestate madre e figlia. Prestavano soldi a persone in difficoltà economiche e poi recuperavano le somme chiedendo interessi fino al 360% all’anno». Niente nome. «Napoli. Si presentava come un consulente finanziario ma, nei fatti, era un usuraio. È così che nella sua trappola ha fatto cadere anche una vedova napoletana: in difficoltà economiche dopo la morte del marito, la donna ha chiesto un prestito di 1.400 euro, ignara che avrebbe dovuto pagare tassi del 500%. Al vaglio dei carabinieri ci sarebbero altre 40 probabili vittime». Niente nome. E via così… Una denuncia dopo l’altra. Quasi tutte con l’identità del «cravattaro» benevolmente coperta dall’anonimato. Salvo eccezioni, ovvio. Esempio? Il caso di un commerciante della Bassa Bergamasca che due mesi fa fece arrestare lo strozzino che gli aveva prestato 3 mila euro con un interesse di 600 mensili «fermo restando l’obbligo di restituire, oltre all’interesse, anche i 3 mila euro». Nome e cognome dell’arrestato? Stavolta sì: Bata Leon, 39 anni, rumeno. Che coincidenza…