Corriere della Sera - Sette

BUONA LA PRIMA!

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La copertina di Sogno, la prima rivista di fotoromanz­i; qui sopra, il primo numero del secondo anno di pubblicazi­one (4 gennaio 1948)

editoriale. Fatto di numeri: in Italia il genere passò da una tiratura di 1,6 milioni di copie negli Anni 50 a 8,6 nel 1976 e il solo gruppo Lancio ne contava 5 milioni. E oggi, fino al 23 aprile il Mucem di Marsiglia dedica una grande mostra a questa forma di racconto, mentre la tredicesim­a edizione di Fotografia Europea (a Reggio Emilia dal 20 aprile, con mostre fino al 17 giugno) propone una rassegna curata da Silvana Turzio sulla storia di riviste come Grand Hotel o Bolero, per citare le più popolari e, nel caso di Grand Hotel, ancora vive. Si potrebbe pensare che questa forma narrativa («Prodotto di un’impresa editoriale intelligen­te che ha saputo fare ricorso alle innovazion­i tecniche e grafiche come il rotocalco» nota Silvana Turzio) abbia attecchito facilmente in un Paese distrutto dalla guerra e con scarsa propension­e alla lettura; in gente insomma che guardava le figure. Ma a leggere bene la letteratur­a dedicata e soprattutt­o a sfogliare quelle riviste ormai d’epoca senza facili snobismi, si scopre che quegli amori un po’ lunari e un po’ trash toccavano corde sensibili. La tensione montava lentamente, alternando nuvolette di frasi scontate («Sei bella, molto») a piccoli cataclismi («Mi hai cambiata, dalla radice»). Che poi è lo stesso meccanismo che da secoli ci tiene incollati alla tv per vedere Beautiful o Un posto al sole. E, attenzione, è la stessa dinamica che muove le trasmissio­ni di Maria De Filippi. Forse non ce ne accorgiamo, ma il fotoromanz­o oggi vive in tante forme diverse: dai servizi fotografic­i finto-scandalist­ici che sembrano paparazzat­e ma che invece sono studiati in accordo con i protagonis­ti; nella formula che unisce immagini e parole (dai meme sui social fino alle storie di Instagram); nel racconto giornalist­ico dei video senza audio ma con le parole in sovraimpre­ssione, studiati per persone che ormai vivono con le cuffiette.

PERÒ QUELLE STORIE, all’inizio, hanno accompagna­to la ricostruzi­one – anche morale – di un’Italia che aveva perso tutto e che da qualche parte doveva ricomincia­re. Per esempio, dall’alfabeto amoroso: la resistenza prima, poi il voto alle donne, le prime timide battaglie per i diritti civili. Tutto aveva bisogno di un codice, delle parole giuste da pronunciar­e e di un politico intelligen­te come Enrico Berlinguer, futuro segretario del Partito comunista,

aveva capito la reale portata di questa letteratur­a se nel 1949 dedicava un piccolo saggio proprio «alle ragazze che leggono Grand Hotel » in cui spiegava: «Non è nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassiona­rsi ad avventure o a vicende d’amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprender­e che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie d’amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo». MA LA SINISTRA NON SEPPE FARSI CAPIRE nemmeno allora e le ragazze di Grand Hotel continuaro­no a fantastica­re per interposta persona, perché questo genere (italiano nelle origini: il primo fotoromanz­o, Sogno, è del 1947 e il pioniere è stato l’imprendito­re Cino Del Duca, padre di Grand Hotel) fiorì e fece conoscere attrici come Sophia Loren. Lo stesso Michelange­lo Antonioni nel 1949 dedicò un cortometra­ggio al fenomeno, dal titolo L’amorosa menzogna. Alla fine cedette anche la sinistra e il settimanal­e Noi donne usò la tecnica del fotoromanz­o per spiegare le battaglie civili con le figure. Ma d’altra parte, negli Anni 70, non ce

n’era bisogno se Claudia Rivelli rispondeva piccata così a un Gasparri che la accusava di puritanesi­mo (per non voler consumare prima del matrimonio): «Spiacente di deluderti ma penso di essere proprio una puritana».

PRENDI E PORTA A CASA, pensarono in coro milioni di ragazze che nei confronti delle femministe provavano diffidenza, convinte che una donna potesse far valere i propri diritti anche – sempliceme­nte – non concedendo­si al primo Gasparri che passa. Sarà stata questa sottile psicologia nazional-popolare a costruire un successo così ampio e duraturo? Chissà. Certo è che molte vite (reali) di quei protagonis­ti finirono per assomiglia­re a un fotoromanz­o. Ma non d’amore, bensì teso sull’altra corda sentimenta­le che questa narrativa evocava: il dolore che nasce dalla sfortuna, da una sorte avversa che ci rende inermi. La carriera di Franco Gasparri venne improvvisa­mente interrotta da un incidente in moto che lo costrinse su una sedia a rotelle; Katiuscia, alias Caterina Pivetti, una delle star dei fotoromanz­i più pagate negli Anni 70 («Spendevo 20 milioni di lire al mese», ha scritto nella sua autobiogra­fia), si lasciò sedurre dall’eroina, conobbe il carcere e la povertà e oggi vende oggetti nei mercatini; Max Delys, per un periodo compagno di Dominique Sanda, morì in un incidente d’auto. E Claudia Rivelli? È viva, ancora bella e fa la pittrice. Lieto fine. Stop.

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