LA GUERRA IN KURDISTAN
Nella città-simbolo della libertà curda, 1.200 lapidi delle vittime della guerra con l’Isis e 1.500 lapidi per chi è stato ucciso nella vicina Afrin dall’esercito turco. Sette anni di guerra, un caduto ogni quattro combattenti
A Kobane, nel cimitero dove riposano giovani soldati morti, ci sono anche le tombe delle donne combattenti, indicate da uno scialle
KOBANE – Le tombe sono tutte uguali. Realizzate in marmo grigio, la maggioranza riporta solo il nome con le date di nascita e di morte in caratteri neri. Età tra i diciotto e i trent’anni. Sotto la lapide un fazzoletto di terra scura. Su quasi nessuna cresce l’erba o ci sono fiori a ingentilirla. Le visitiamo in una giornata uggiosa, gonfia di pioggia, con il vento teso che trascina nubi nere e umide dagli altopiani anatolici. Ondate di scrosci che ispessiscono il fango e costringono gli operai addetti alla costruzione dell’edificio-museo pianificato all’entrata del cimitero a cercare rifugio tra le impalcature. Giungono dalla parte dei fili spinati e i campi minati che segnano il confine con la Turchia solo cinquecento metri da noi,
presso i quartieri dove dominano più fitte le macerie della guerra con Isis di quattro anni fa. I soldati turchi sono rintanati nelle casematte e nelle torri di guardia. Pochi giorni orsono le loro artiglierie hanno tirato un paio di colpi d’avvertimento verso Kobane, senza causare vittime.
MA ORA C’È SILENZIO. Tra le tombe dominano quelle di giovani uomini. Non mancano quelle delle soldatesse marcate al femminile da uno scialle, da un drappo consumato dal sole e la pioggia, appoggiato sul marmo dalle compagne in solidale ricordo. Qualcuna ha appesa una fotografia con il volto del combattente defunto, sempre in divisa e accompagnata dall’immancabile stella rossa. Si riconosce quella di Barin Kobani, torturata e uccisa dalle milizie sunnite al soldo dei turchi solo poche settimane fa. I video circolati in rete la mostrano sanguinante con i seni strappati, come una martire del Medioevo. Ci sono quelle di altre ragazze che preferirono farsi saltare in aria con le loro bombe a mano piuttosto che venire catturate da Isis. Le tombe segnano le tappe recenti dell’impegno militare curdo: le date delle battaglie contro Isis a Hasakah, Raqqa, Dair az Zor. Tutte le steli conservano in ogni caso lo stesso ethos improntato a un’austerità spartana, essenziale e semplice: sono lo specchio fedele della società militarizzata per cui questi giovani sono caduti. « È il memoriale dei nostri combattenti caduti per la libertà dei curdi, ma anche per difendere voi europei dai terroristi di Isis », dice Aref Bali, 38 anni, direttore dell’Organiz-
zazione per l’assistenza alle famiglie dei martiri. La sede è nel centro di Kobane. A loro il compito di organizzare la costruzione del grande cimitero militare alle porte della città. Al momento raccoglie oltre 1.200 tombe. La grande maggioranza di uccisi nella battaglia contro Isis, che nell’autunno 2014 cercò di prendere la città curda assurta a simbolo della lotta generosa e a oltranza contro i jihadisti fanatici. Ma nelle ultime settimane si stanno aggiungendo con velocità impressionante i tumuli quotidiani di terra fresca per le vittime dei combattimenti contro l’esercito turco e i suoi alleati tra le milizie sunnite nella regione di Afrin, una settantina di chilometri a ovest di qui. Quanti? «Forse sino a 1.500», ammettono i portavoce delle Ypg, che sta per Unità di Protezione Popolare, operante assieme alle Ypj femminili. SE VUOI COMPRENDERE l’essenza di Rojava, come i curdi siriani chiamano la loro zona autonoma indipendente nel nord-est del Paese, non puoi esimerti da conoscere le motivazioni dei suoi combattenti e il culto dei morti in battaglia. «Noi abbiamo un esercito composto da circa 35mila tra uomini e donne. Dall’inizio della guerra civile in Siria quasi 10mila dei nostri sono stati uccisi e abbiamo dovuto sostituirli con nuovi volontari», spiega Nuri Mahmoud, 40 anni, portavoce Ypg a Qamishli. Se si riflette bene si tratta di un numero di vittime enorme: quasi un combattente su quattro ha perso la vita in sette anni, senza contare i feriti e i civili rimasti coinvolti nelle battaglie. Non è strano che tante famiglie abbiano preferito abbandonare le loro case e sfollare nelle zone controllate dal regime di Damasco o emigrare all’estero pur di non sacrificare i propri figli. E si capisce dunque anche il gigantesco sforzo delle autorità curde per convincere la propria gente a restare e combattere. Rojava: la Sparta curda. Ogni città, ogni villaggio, qualsiasi nucleo di case curde sparse nelle campagne ha un luogo dedicato ai suoi caduti. Le loro foto sono ben visibili in giganteschi cartelloni appesi nelle piazze, sulle
Ogni città, ogni villaggio, qualsiasi nucleo di case curde sparse nelle campagne ha un luogo dedicato ai suoi caduti. Le loro foto sono ben visibili in giganteschi cartelloni appesi nelle piazze
colline più alte. E quasi sempre in mezzo trionfa l’immagine dell’oggi settantenne Abdullah Ocalan, lo storico leader del Partito dei Lavoratori Curdi in Turchia (Pkk), in carcere con l’imputazione di “terrorismo” dal 1999 e nemico numero uno di Recep Tayyip Erdogan, il quale l’accusa di eversione ai danni dell’unità nazionale turca e di essere al cuore dell’alleanza tra gli indipendentisti curdi turchi e i “fratelli” di Rojava. Questi ultimi con gli osservatori stranieri in genere tendono a negare. Parlano di Apo (il suo soprannome di battaglia) solo come di un simbolo, la cui ideologia marxista-leninista è stata ormai superata dai tempi. Ma Apo sventola dovunque. Dal confine con l’Iraq lungo il Tigri, nei villaggi agricoli sull’Eufrate e poi giù verso Raqqa: ogni comunità ha un responsabile locale in un ufficio sovrastato dalla sua immagine che si occupa di assistere le famiglie dei “martiri”, provvede all’educazione degli orfani, offre sino a 200 dollari mensili per chi ha necessità economiche e soprattutto si assicura che la memoria di quel sacrificio venga tramandata alle nuove generazioni.
A KOBANE, dove è situato il Salone delle Commemorazioni con le foto di migliaia di “martiri”, tra cui anche alcuni volontari stranieri, è stato deciso di creare un «museo all’aria aperta». «Un intero quartiere rimarrà in rovina a futura testimonianza. Occorre che il mondo sappia quanto c’è costata la guerra contro Isis e oggi contro la Turchia», spiegano Jihan Hassan, 23 anni,
e Warshin Saleh, 21, entrambe allieve all’Accademia dove studiano i futuri professori che insegneranno nelle scuole locali. Le incontriamo mentre le milizie arabe alleate di Ankara stanno occupando il centro di Afrin. «Noi possiamo difenderci da Isis, ma non contro il secondo esercito della Nato. L’America di Trump è un alleato poco affidabile e voi europei non ci siete del tutto. Ecco uno dei tanti motivi che spinge Rojava ad evitare qualsiasi pulsione indipendentista. Noi vogliamo restare siriani, a patto che Damasco rispetti la nostra autonomia», aggiungono. I loro toni estremamente realisti sono ribaditi in termini più politici da Mizgin Ehmet, originaria di Afrin e oggi Direttrice dell’Amministrazione civile di Rojava: «An- che se noi consideriamo la battaglia per Afrin come una coerente continuazione di quella per Kobane, sappiamo bene che gli americani alla fine non saranno pronti a scontrarsi con la Turchia per difenderci. Il nostro futuro sta dunque in una Siria democratica e federale. Ocalan resta un leader amato da tutti i curdi, ma noi non siamo il Pkk. Alla fine Bashar Assad capirà che la Siria del 2011 è morta da un pezzo. E dunque accetterà di cooperare con noi, come del resto sta già facendo, unendo le sue truppe alle nostre contro il comune nemico turco».
A Kobane, dove è situato il Salone delle Commemorazioni con le foto di migliaia di “martiri”,
è stato deciso di creare un museo all’aria aperta: un intero quartiere rimarrà in rovina a futura memoria