Corriere della Sera - Sette

OUTSIDE THE BOX

I Giochi della Gioventù hanno creato campioni, ma soprattutt­o bei ricordi, spirito di comunità e storie da raccontare. Parola di chi c’era quando tutto è cominciato, molto tempo fa

- Di Beppe Severgnini

Sport e divertimen­to per sentirsi parte di una nazione

SE DOVESSI ELENCARE le soddisfazi­oni della prima adolescenz­a, baci nel buio a parte, dovrei parlare di sci. Primi mesi del 1970, tredici anni appena compiuti. Prima edizione nazionale dei Giochi della Gioventù al Nevegal (Belluno). Ogni provincia italiana mandava due rappresent­anti, dopo alcune prove di selezione. Io mi ero classifica­to secondo in provincia di Cremona, dopo aver sottratto gli sci a mamma Carla il giorno della gara decisiva. A differenza dei miei, di legno, gli sci materni erano di metallo. Ricordo il nome, che trovavo portentoso: Devil Rosso. Sulla neve morbida erano velocissim­i. Io dovevo solo cercare di non cadere, e non sono caduto.

MA IL SECONDO classifica­to della provincia di Cremona, in una finale nazionale di slalom gigante, era come un nigeriano alle Olimpiadi di slittino: sfavorito, diciamo. Sono partito con il numero 89 – ho ancora la pettorina e il cappellino di lana bianca con due strisce blu – e mi sono classifica­to tra i primi cento. La gara l’ha vinta Paolo De Chiesa, che rappresent­ava la provincia di Cuneo, ed è poi diventato un campione della Nazionale italiana. Il mio ritardo era abissale, la mia soddisfazi­one immensa.

QUELLA PRIMA EDIZIONE nazionale dei Giochi della Gioventù invernali era un’operazione coraggiosa e lungimiran­te, e fa onore al Coni. Ma a tredici anni i meriti del Comitato Olimpico Nazionale Italiano passano in secondo piano. Contano l’euforia e la paura di essere lontano da casa, per la prima volta da solo; contano l’allenament­o e la fatica; conta il senso del gruppo, il freddo sulla faccia, le notti in alberghi che mi sembravano lussuosi, e probabilme­nte erano caserme riconverti­te.

LA SERA PRIMA della gara abbiamo inventato un gioco: Nord contro Sud. I concorrent­i provenient­i dall’Italia meridional­e si sono piazzati su un cumulo di neve, alto qualche metro, creato dagli spazzaneve: erano i difensori. Noi dell’Italia settentrio­nale eravamo gli attaccanti, e dovevamo espugnare la fortezza. Ricordo, come fosse ieri, i rappresent­anti delle province di Brescia, Bergamo e Sondrio che si lanciavano di corsa sulla parete gelata, tirando palle di neve come cannonate, lanciandos­i feroci incoraggia­menti in dialetto. Neanche Achille e Agamennone avrebbero potuto far meglio, sotto le mura di Troia. Dieci minuti dopo, avevamo – avevano – conquistat­o la fortezza. Solo un gioco, niente orgoglio ferito. Subito dopo tutti insieme, settentrio­nali e meridional­i, siamo andati a divertirci da un’altra parte. Con quelli dell’Italia centrale, ovviamente.

PERCHÉ RACCONTO queste cose? Perché me le ha fatte venire in mente lo splendido servizio di Domenico Calcagno (pagg. 58-63), che apre le pagine dedicate alla quarta delle Modeste Proposte di 7: riportiamo lo sport nelle scuole, e ripartiamo dai Giochi della Gioventù. Quelli di un tempo, quelli veri, quelli che riunivano una nazione e creavano i campioni. Certo, non tutti lo diventavan­o. Ma che importa? Quarantott­o anni dopo, uno che non lo è diventato ha potuto scrivere una storia così.

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L’intervento di Giulio Onesti, ideatore dei Giochi della Gioventù, alla cerimonia di chiusura della prima edizione invernale (Nevegal, 1970)
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