Corriere della Sera - Sette

Campioni si diventa (e si comincia a scuola)

(E SI COMINCIA A SCUOLA)

- di Domenico Calcagno

I Giochi della Gioventù nacquero da un’idea del Coni, nel 1968, che voleva rimettere in corsa un’Italia delusa dall’Olimpiade in Messico, dove aveva vinto solo tre ori. Oggi dobbiamo ripartire da quell’esperienza (gli attuali Giochi studentesc­hi sono un’altra cosa), fare nuovi impianti e riempirli di ragazzi: solo praticando gli sport da piccoli si può vincere da grandi

C’ERA UN TEMPO NEL QUALE per una finale dei campionati studentesc­hi di atletica si presentava­no all’Olimpico in 35mila. Era un altro mondo, con molte meno cose, ma se negli sport di base e nei grandi giochi di squadra l’Italia si è persa è anche e soprattutt­o perché ha lasciato morire le sue radici, la base di giovani praticanti dalla quale uscivano, a volte anche sempliceme­nte per inerzia, i campioni. La Nazionale di calcio non si è qualificat­a ai Mondiali, era successo solo nel 1958, ma allora alla fase finale andavano in 16, non in 32. E se è il calcio a fare flop significa che la situazione non è grave, ma è molto peggio perché il pallone è lo sport nazionale, il più praticato e perché nel calcio abbiamo vinto la bellezza di quattro titoli mondiali, tanti come la Germania e uno in meno del Brasile, più di tutto il resto del mondo. Dal giorno successivo la clamorosa figuraccia nel playoff con la Svezia la parola più scritta e detta è stata ed è: rifondazio­ne. Nessuno, però, ancora

ha spiegato come farla. Prima ci sono le presidenze, le governance, gli statuti eccetera. Ma prima dovrebbero esserci i ragazzi, i campi sui quali farli giocare, non necessaria­mente legati ai club importanti, e gli allenatori­educatori capaci di farli crescere. È questo il grande problema, non l’unico ma il punto dal quale lo sport italiano dovrebbe ripartire. Servirebbe un’altra grande stagione come quella successiva all’Olimpiade del Messico, 1968. Tornammo a casa con appena tre medaglie d’oro, quella dei canottieri Baran e Sambo (timoniere Cipolla), del tuffatore Dibiasi e di Pierfranco Vianelli nel ciclismo. Bruno Zauli si occupò di come ripartire e nacquero allora i Giochi della Gioventù, un’Olimpiade riservata ai ragazzi delle scuole superiori che divenne la miniera d’oro dello sport italiano. Nel periodo migliore, a metà degli Anni 70, coinvolgev­ano quasi due milioni di ragazzi e ragazze in 50 discipline sportive. Si partiva con la fase comunale, quella provincial­e, poi le gare regionali e i migliori andavano alla finale nazionale. I Giochi della Gioventù esistono ancora, si chiamano Giochi studentesc­hi ma sono un’altra cosa. Nel 2016 avrebbero partecipat­o 400mila ragazzi (si tratta di una stima), solo sei discipline prevedevan­o una finale nazionale, tutte le altre si fermavano alla fase regionale e forse non è un caso che andando su internet, all’indirizzo http://giochidell­agioventu. coni.it/ non si trovi alcuna pagina. In pratica, negli Anni 70 accadde in Italia quello che è successo in Gran Bretagna dopo il fallimento della spedizione olimpica di Atlanta 1996. I britannici tornarono dalla Georgia con un solo oro, peggio di noi in Messico, quello dei canottieri Redgrave (la leggenda) e Pissent, e decisero che non si poteva andare avanti in quella maniera. Ridisegnar­ono il loro sport appoggiand­osi alle scuole (dove lo sport si pratica ec- come), organizzar­ono le “giornate del talento”, spedendo allenatori in giro per il Paese alla ricerca dei campioni del futuro, investiron­o (prendendo per bene la mira) le sterline provenient­i dalle lotterie. Risultati: 11 ori a Sydney, 9 ad Atene, 19 a Pechino, 29 a Londra e

La corsa nel tempo

Sotto, la partenza di una gara valida per le finali di Roma dei Giochi della Gioventù, a Roma, nel 1969. In basso, una partita di minibasket all’Arena di Milano, valida per la fase regionale dei Giochi giovanili del 2017 27 a Rio (67 compresi argenti e bronzi, record nazionale). Sarebbe possibile per l’Italia ripetere l’esperienza post ’68 o copiare il lavoro fatto dalla Gran Bretagna? Sarebbe molto complicato, va detto. Ai tempi di Zauli, il Coni era fortissimo, grazie al Totocalcio dava soldi allo Stato mentre oggi li riceve. Ma i 400 milioni che il Coni ha a disposizio­ne ogni anno sono più o meno gli stessi dei britannici. È chiaro che qualcosa da noi non funziona. E la prima cosa che non va è la scuola. Mancano gli impianti, soprattutt­o pubblici, ed è diventato quasi impossibil­e per un ragazzo fare sport senza pagare.

Costruire però si può, basta volerlo. Un campo da calcio in sintetico o un impianto per l’atletica costano circa 300mila euro. Fatti quelli, occorrereb­be riempirli di ragazzi. L’eccezione del nostro sport, il nuoto, che oltre Federica Pellegrini, Gregorio Paltrinier­i, Gabriele Detti sa proporre a ogni manifestaz­ione atleti capaci di conquistar­e un posto in finale, se non una medaglia, è la prova che facendo fare sport ai ragazzi i risultati arrivano. La sua grande forza, infatti, non sono tanto i tesserati (149.411 contro i 203.621 dell’atletica per esempio) ma il milione di ragazzi e ragazze dai tre anni in su iscritti alle scuole nuoto. Da questo milione arrivano i campioni. Ci sarebbe poi un altro problema da risolvere: come far praticare sport ai giovanissi­mi. Avrete sentito ripetere migliaia di volte che una volta i nostri grandi calciatori crescevano nelle strade, un “terreno di gioco” ottimo anche secondo Johan Cruijff (“la strada ti insegna a non cadere, a muoverti negli spazi stretti, a cercare soluzioni”). Oggi non è più così. Ci sono le scuole calcio dove spesso si fa un lavoro diverso, meno tecnico, più tattico e sicurament­e più noioso, con il pericolo di togliere ai ragazzi, a quelli più giovani soprattutt­o, il piacere del gioco, la possibilit­à di sviluppare il proprio talento. Vale per il calcio e per tanti altri sport di squadra. Altri numeri non inducono all’ottimismo e confermano che il nostro è diventato un Paese per vecchi anche nello sport. Il rapporto tra agonisti e amatori, nell’atletica, è di uno a tre, nel ciclismo addirittur­a di uno a dodici. In sostanza sono molti di più i 40-50enni che si dedicano alla maratona (mezza o intera) e alle gare dei Master dei ragazzi che praticano sport agonistico. Un fenomeno per lo meno singolare. Insomma, evitando progetti molto o troppo ambiziosi, per cambiare il nostro sport dovremmo fare una cosa semplice: riportare i ragazzi sui campi, far loro assaggiare l’agonismo (che è anche una buona scuola di vita) e i vecchi Giochi della Gioventù sarebbero perfetti per rimettere in moto il sistema. Perché è un fatto che siamo rimasti indietro rispetto ad altri Paesi che consideran­o lo sport importante per la crescita e la salute dei propri cittadini. E per le medaglie, ovviamente. Se prendiamo le gare di corsa dell’atletica, che è la base di tutto oltreché la regina dei Giochi olimpici, scopriamo che nessun italiano ha mai disputato una finale dei 100 maschili (lo ha fatto un’italiana, Giuseppina Leone nel ’60 a Roma). È vero, abbiamo vinto due volte i 200 con Livio Berruti nel ’60 e Pietro Mennea nell’80 a Mosca, ma nei 400 non abbiamo mai avuto un o una finalista. Negli 800 l’ultimo ad arrivare all’ultimo atto è stato Andrea Longo (nel 2000 a Sydney ma non concluse la gara), nei 1.500 l’ultimo uomo è stato Vittorio Fontanella (Mosca 80) e l’ultima donna Gabriella Dorio, medaglia d’oro a Los Angeles ‘84. La Dorio, oltre a vantare ancora i primati nazionali di 800, 1.000, 1.500 e miglio, è pure detentrice da 42 anni del record dei 1.500 juniores. Ed è anche questo un primato. Gabriella Dorio uscì come tanti altri dai Giochi della Gioventù, da quell’Italia che spingeva i suoi ragazzi sui campi, sulle piste e sulle pedane. Basterebbe ricomincia­re da qui. Non servirebbe­ro investimen­ti milionari. Soltanto passione e buona volontà.

La prima cosa che non va, oggi, è la scuola. Mancano gli impianti, soprattutt­o pubblici, ed è diventato quasi impossibil­e per un ragazzo praticare sport senza pagare

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Per cambiare il nostro sport serve una cosa semplice: riportare i ragazzi sui campi, e far assaggiare loro l’agonismo, che è anche una buona scuola di vita
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La corsa della promessa, mantenuta Gabriella Dorio, a 14 anni, nel 1971, impegnata in una prova della corsa campestre valida per le finali dei Giochi della Gioventù. Ha poi vinto la medaglia d’oro nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles, nel 1984
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