DERBY MILITARE
Naja sì o naja no?
In Francia vogliono rilanciare il servizio militare obbligatorio. E in Italia? Oggi può educare i giovani a diventare più autonomi e disciplinati? Oppure rappresenta un’esperienza anacronistica e frustrante? Confronto fra due colleghi che, in caserma, hanno vissuto situazioni diverse
MAURIZIO DONELLI Nevicava a Cuneo. Era febbraio. Alzabandiera sul piazzale della caserma Ignazio Vian alle 6,30 e poi due ore di marcia nel cortile. Un! Due! Tre! Passo! Un! Due! Tre! Passo! Alle otto e mezza eravamo stanchi, congelati e fradici. A quel punto arrivò l’ordine: «Tutti in camerata a prendere la giacche a vento! Poi tornate qui!». Comincio da qui, caro Lorenzo. Dall’assurdità di questa situazione per spiegare quanto sarebbero utili a tanti ragazzi di oggi, 12 mesi di naja. Ma come? Non potevate dircelo prima di prendere le giacche a vento, ora a che cosa servono? Avrei voluto urlare. E invece, no: zitto e mosca. E marciare. Perché quello che avevo davanti non erano un papà, una mam-
ma o un professore remissivi a cui dire «non rompere!, faccio quello che voglio». Era un velenoso sergente maggiore degli alpini che mi avrebbe fatto passare una notte in cella se avessi osato ribellarmi. Il mio primo vero capo, che mi fece ingoiare il mio primo vero rospo. Comincio dall’illogicità della vita in divisa, che poi ho dovuto affrontare e ancora oggi affronto nella mia vita di adulto. In Francia vogliono ripartire dal militare obbligatorio? Facciamolo anche noi. Sarebbe un bene, penso, per i nostri cari bamboccioni.
LORENZO CREMONESI Caserma Montorio Veronese: quanto mi vergognai di essere soldato e soprattutto soldato italiano. Siamo in 350 al corso autieri. Dobbiamo seguire le lezioni teoriche e pratiche per ottenere la patente che permetta di guidare articolati pesanti. «Non male, magari serve a qualche cosa finalmente», penso. Dopo un mese di ridicole e inutili attese al Car ( Centro addestramento reclute, ndr) di Como, dove non si faceva assolutamente nulla, se non qualche lezione di marcia, magari c’era azione. E invece per un altro mese rimanemmo seduti otto ore al giorno in una stanza vuota, senza istruttori, senza automezzi, senza niente. Anzi, qualche cosa c’era: le fesserie del nonnismo e un sergente da parodia della naja che sembrava finto e leggeva fumetti pornografici. Poi venne il nostro capitano per dirci che,
visto che nel far niente generale si generavano ogni tanto risse e chiassi, avremmo potuto spazzare il viale antistante per un paio d’ore al giorno (che avrebbero dovuto essere dedicate al corso, sigh!). Così arrivarono una decina tra scope e rastrelli (per 350 uomini!) con qualche secchio. Quando poi il capitano vide che ci io davo dentro – era il mio modo per sfogarmi – decise di offrirmi di fare il giardiniere a casa sua. In cambio avrei avuto qualche licenza supplementare. Ovvio che rifiutai. Alla fine ottenemmo la patente per i rimorchi pesanti, senza un test, senza una prova, così, d’ufficio. Era, oltretutto, una patente valida anche per la vita civile. Per il giorno dopo era pianificata una marcia di 30 chilometri. Ero felice: partenza alle sei di mattina con zaino e fucile in spalla. Finalmente ci si muoveva. Purtroppo, solo dopo cinque chilometri gli stessi ufficiali decisero che era abbastanza. Motivo? Piovigginava! Si chiusero in un bar a bere e giocare a carte. Noi restammo fuori schierati in attesa. Andrò avanti con altri esempi. Caro Maurizio, ti risponde uno che al militare crede. Sono troppi anni che vedo crescere guerre e realtà destabilizzate attorno a noi. Temo per questa Europa imbelle, per l’Italia mammona, per la mancanza del senso del valore di ciò che abbiamo, tanti ci invidiano, ma non siamo pronti a difenderlo. Ma la naja che ho visto io no. Assolutamente no! Invece l’esercito di volontari professionisti che mi capita di incontrare nei teatri delle nostre missioni militari all’estero mi sembra molto, molto meglio.
MD Capisco perfettamente dalla tua descrizione quello che dici perché anche tu parli
«La vita militare è stata propedeutica: quei 14 mesi mi hanno consegnato al mondo del lavoro e degli affetti con una preparazione di base» «La vecchia naja insegnava solo che vincono i furbi, i privilegiati e i raccomandati»
di assurdità. Ma è la morale che ne traiamo quella che fa divergere le nostre opinioni. Nella mia metafora, la vita militare è stata propedeutica alla vita reale. Io ne ho fatto tesoro. Sono convinto che quei quattordici mesi (due li ho trascorsi su un altopiano turco, vicino a Erzurum, durante la guerra del Libano) mi abbiano consegnato al mondo del lavoro e degli affetti con una preparazione di base. Con un elmetto ideale per ripararmi dalle ingiustizie e dai soprusi. Erano, quei mesi, una sorta di addestramento al fango dentro il quale avrei dovuto muovermi negli anni successivi. Oggi ho l’impressione che tanti ragazzi escano da casa con le scarpe lucide e in quel fango ci finiscano quasi inconsapevolmente. Voglio essere banale: a militare dovevi rifarti il letto (il cubo, ricordi?), tenere in ordine i tuoi spazi e il tuo abbigliamento, lavare cessi e padelle, adattarti a mangiare quello che c’era (e durante il campo in Turchia fu una prova durissima). Non serviva per imparare a combattere un nemico. Ma a salire sul ring della vita.
LC Stiamo parlando della classica naja, oppure del servizio militare per soldati scelti e per giunta in missioni all’estero? Perché io parlo della vecchia naja di massa. Quando chiesi di poter fare l’ufficiale alpino alla scuola di militare di Aosta con tanto di lettera del Cai mi dissero che potevo scordarmelo. Sebbene fossi un buon alpinista, c’erano tanti più raccomandati di me. La tua esperienza in Turchia mi sembra tanto simile a quella del nostro esercito volontario odierno, che è tutt’altra cosa. La vecchia naja insegnava invece solo che vincono i furbi, i privilegiati
«Il campo in Turchia, vicino Erzurum, durante la guerra in Libano, fu una prova durissima» « La tua esperienza turca sembra simile a quella del nostro esercito volontario di oggi»
e i raccomandati. Una lezione di vita? Forse, ma deleteria. Lo specchio di un Paese da rifare. Quell’esercito era una grande area di parcheggio per ufficiali praticamente tutti meridionali, un ricovero per disoccupati potenziali. Non c’era fango, non c’era fatica. Ma c’erano sopruso, pigrizia, ruberie e ingiustizie. Io dopo quei mesi sprecati sono rimasto fuori dall’Italia per oltre un decennio. Pensavo: «Un Paese che tratta in questo modo i suoi giovani non mi merita». Un altro esempio? Mi misero a fare l’autista di ambulanze. Ogni mattina dovevo portare le brioche dalla mensa all’infermeria per i malati. Immancabilmente, ogni giorno mancavano tra le 300 e 400 brioche su circa 10.000. Motivo? Le imboscavano i marescialli per rivenderle. Quando lo denunciai, al comando non ne fecero nulla. Poi mi dissero che in ballo c’erano anche traffici più importanti di pezzi di ricambio di motori. E infatti le nostre ambulanze erano
«Ho fatto il cameriere per la comunione della figlia del maresciallo. Ho lucidato la scrivania del capitano per un giorno in più di licenza» «Ogni giorno i marescialli imboscavano 300/400 brioche per rivenderle. Denunciai ma non successe nulla»
sempre rotte. Per ripararle si cannibalizzavano le altre. D’inverno, a Verona, girammo per un periodo senza parabrezza. Ridicoli, da barzelletta: alla guida dell’ambulanza con sciarpa, occhiali e cappello calcato sulla fronte. Un freddo boia!
MD Anch’io ho fatto il cameriere per la comunione della figlia del maresciallo (viveri presi in caserma… sala delle feste al circolo ufficiali… costo zero). Anch’io ho lucidato la scrivania del capitano per poter avere un giorno in più di licenza. Ma ho anche ricordi belli: tutte le volte che tornavo a casa apprezzavo di più il valore della famiglia e del suo calore. Alla fine del Car andammo a leggere la lista degli incarichi per i mesi successivi di naja. A me assegnarono il 103: porta barelle. Botta di fortuna, invece del fucile avrei avuto in dotazione la pistola, più leggera. A un alpino arrivato da chissà quale paese della Puglia diedero
l’incarico di “autista mezzi anfibi”. Lui rimase perplesso, mi guardò, poi abbassò lo sguardo verso gli scarponi, indicandoli perplesso: «Scusa, ma gli anfibi non sono questi?». Ruberie, soprusi, analfabetismo, angherie al limite della violenza: hai ragione. Ma quella naja di massa era lo specchio della società. Di allora e, purtroppo, di oggi. Un passaggio indispensabile per esserne consapevoli.
LC Quella naja che abbiamo vissuto entrambi grazie al cielo non c’è più. Era già anacronistica, costosa, corrotta sino al midollo e inutile quarant’anni fa. È finita l’era degli ufficiali grassoni, che si fanno servire a tavola dalle reclute cibi speciali, mentre la truppa mangia schifezze! Davanti a un qualsiasi nemico vero il nostro esercito di allora si sarebbe sciolto come neve al sole. Dal 1945 la nostra difesa nel contesto della Guerra Fredda è stata garantita unicamente dall’ombrello Nato con gli americani in testa. Ribadisco però che non credo al pacifismo imbelle. Abbiamo sempre più bisogno di difese militari, di rispondere assertivamente ad un mondo via via più insicuro, minaccioso, dove vale la legge del più forte e sono svanite le garanzie del passato. E ciò può avvenire nel contesto di un esercito volontario europeo, professionale, agile, tecnologicamente avanzato. Per fare un esempio: solo poche settimane fa Erdogan ha inviato le sue cannoniere a bloccare la nave dell’Eni al largo di Cipro. Un atto di guerra. E noi cosa abbiamo fatto? Nulla. Una forza europea anche non troppo vasta, ma ben equipaggiata col meglio delle nuove armi sofisticate, sarebbe stata un deterrente sufficiente contro la nuova prepotenza turca.