Sara Simeoni: «Oggi si corre tanto da adulti e poco da bambini»
Ex primatista del mondo di salto in alto, nominata atleta del secolo dal Coni, insegna educazione fisica in una scuola media: «Oggi si fa meno attività sportiva, e questo si vede già dalla mancanza di coordinamento che hanno i ragazzini. Bisogna ripartire dall’inizio, insegnando loro a crescere anche attraverso il movimento»
SARA SIMEONI HA FATTO il record del mondo di salto in alto a Brescia il 4 agosto del 1978, di 2,01, e l’ha rifatto una settimana dopo a Praga. Con quel doppio colpo l’Italia si svegliava dal lungo sonno nei confronti dello sport femminile. Nel 2014, in occasione dei 100 anni del CONI, è stata nominata “Atleta del Secolo” insieme ad Alberto Tomba, anche se poi il suo modello sportivo non è stato messo a frutto come sarebbe stato saggio fare. Adesso insegna educazione fisica in una scuola media a Verona e ne frequenta molte altre, perché segue il progetto “Educazione al fair play con Sara Simeoni”, in accordo con l’Ufficio provinciale scolastico e la Fidal del Veneto. «Sono giornate intense: prima facciamo vedere un breve documentario che racconta la mia storia e mostra i miei salti, poi parlo dei valori dello sport e rispondo alle loro domande. Alla fine facciamo
un po’ di esercizi in palestra o sul campo di atletica. Quasi sempre mi domandano di far rivedere come si fa a saltare. Mi viene da ridere, perché è come se lo chiedessero a una loro nonna e gli spiego che non posso più farlo». Lei sa che in Italia il record juniores femminile ( under 18, ndr) degli 800 metri non viene battuto da 38 anni, quello dei 100 da 39 e quello dei 1.500, che fece Gabriella Dorio, da 42? Anche quelli dei ragazzi sono fermi nella stessa zona di bonaccia: l’asticella del salto in alto maschile, per fare un solo esempio a lei vicino, non si muove da 37 anni. «Non sapevo le date esatte, ma non mi stupiscono questi salti nel passato per ritrovare dei risultati buoni, soprattutto nell’atletica. La spiegazione non è che non ci sono più talenti, ma che tutto viene fatto in modo superficiale. In Italia adesso tutti corrono, da adulti, ma si è smesso di farlo da bambini. Anni fa nelle scuole si faceva più atletica o ginnastica di oggi: i ragazzini più forti spesso entravano presto nelle società sportive e c’era più continuità, sicuramente anche grazie ai Giochi della Gioventù, che rappresentavano un grosso stimolo. Serio, e senza fanatismi. È giusto che alla scuola non interessi creare campioni, ma sarebbe
«Tocca ai ragazzi scegliere lo sport che vogliono praticare. I bambini possono essere guidati, ma le famiglie non devono imporsi. Troppi genitori sognano oggi che i figli diventino campioni e, sugli spalti, a volte forniscono pessimi esempi»
fondamentale che svolgesse bene una preparazione sportiva». Frequentando molte scuole, per seguire il suo progetto sul fair play, che impressione si è fatta del rapporto che i bambini hanno con lo sport? O, prendendola un po’ più alla larga, con il gioco o, alla larghissima, con la semplice corsa? «Ne parlavo con una maestra di una scuola elementare in cui sono stata ieri, dove ho fatto fare un po’ di esercizi. Per esempio camminare sulle punte, e sui talloni. A quell’età i loro corpi sono flessibili, come la gomma. Eppure, tolte due o tre ragazzine che fanno ginnastica artistica e sembrano dei giunchi, gli altri sono imbranatissimi. Sono una tragedia da vedere: hanno una mobilità articolare nulla. Si nota subito che si muovono poco e male. Non hanno coordinamento, e questo si vede anche nel modo che hanno di correre, soprattutto dietro a una palla». Quando contano i genitori? Come è cambiato il loro ruolo a bordo pista, campo, o piscina che sia? «Intanto è importante che siano i ragazzi a scegliere l’attività sportiva che vogliono praticare. I bambini possono essere guidati, ma le famiglie non devono imporsi. Oggi invece succede di frequente. Il piacere di fare un’attività sportiva è fondamentale, soprattutto se uno ha del talento: si possono accettare i sacrifici che lo sport esige per emergere solo se c’è passione nel farlo. Se no, diventa solo una tortura, per di più inutile, salvo qualche eccezione. Oggi ci sono troppi genitori che vogliono veder emergere i figli. A tutti può piacere quest’idea, ma bisogna però avere fiducia negli allenatori e nelle società nelle quali i propri figli si allenano. È pieno di tuttologi, che fanno solo danni ai propri ragazzi. Poi, a proposito di fair play, i genitori a bordo pista non dovrebbero mai dimenticare di averlo. I ragazzi assorbono quello che vedono accadere tra il pubblico. In particolare quello che fanno padri e madri. È evidente e logico, ma molti sembrano dimenticarlo». Lei, quando smise l’attività agonistica, iniziò quasi subito a lavorare a un progetto della Fidal che si chiamava “Club Italia”, e puntava sulla diffusione dell’atletica in Italia tra i ragazzi. Perché è rimasto un caso isolato, e poi abbandonato? «La Federazione di atletica, alla fine degli Anni 70, era molto attiva. C’era un Centro studi, si organizzavano convegni sulle tecniche di allenamento. Con “Club Italia” avevamo creato una struttura che selezionava i ragazzi a livello regionale e poi, tra questi, i cento migliori nelle varie attività, selezionati in tre raduni al Sud, al Centro e al
Nord, partecipavano alla fase finale a Roma. Era un binario parallelo a quello dei Giochi della Gioventù. E funzionava bene: moltissimi sono stati quelli che sono passati alla squadra nazionale. Diversi sono saliti sui podi olimpici. A livello giovanile avevamo bisogno di costruire una nostra storia, senza per forza copiare quello che arrivava dall’estero. Per questo avevamo creato un team di tecnici e allenatori nazionali che collaborava in stretto contatto con quelli delle varie sedi regionali. I risultati si vedevano, e lo confermano proprio i record che si citavano all’inizio. Nel 1990 la Federazione ha deciso di chiudere questo progetto, forse perché era diventato troppo importante e cominciava a mettere in discussione degli equilibri di potere. Io non sono mai stata interessata ad averlo, e l’avevo anche detto pubblicamente ma forse non mi hanno creduto. A me appassionava soltanto creare le condizioni per far crescere dei giovani che avevano talento nell’atletica. Sta di fatto che, da un giorno all’altro, hanno deciso di fermare quel progetto e mi hanno mandato a casa». Ripartiamo dall’inizio: lei come finì su un campo di atletica? «È stato un caso, fortunato: sia alle elementari che alle medie ho avuto insegnanti che ci facevano fare molta educazione fisica. La professoressa delle medie poi aveva creato un collegamento con una società di atletica che si allenava nella nostra scuola. Io e un gruppetto di amiche ci siamo iscritte, più che altro per avere una scusa per stare insieme fuori dall’orario scolastico. Era più che altro un gioco, provavamo un po’ di tutto: corsa, ostacoli, lanci. Ci divertivamo moltissimo». Si ricorda il primo salto in alto? «Sì, avevo 13 anni: ho preso la rincorsa dritta perché si saltava all’“italiana”, cioè con la tecnica usata nelle corse a ostacoli, anche perché bisognava atterrare in piedi visto che c’era la sabbia e non i materassi. Ho fatto il record di categoria, non mi ricordo quanto fosse. Quando poi qualche giorno dopo sono passata alla tecnica della “forbice” ho rifatto un altro record: mi pare un metro e 57. A quel punto avrei dovuto imparare la tecnica del ventrale, ma mi faceva un po’ paura. Per fortuna si stava cominciando a provare anche il Fosbury, e io mi sono dedicata subito a quello, che è poi diventato il mio stile per sempre. All’inizio rischiavamo davvero di farci male, perché per l’atterraggio si usavano reti con dentro pezzi di gomma piuma o sacchi di juta coperti da un telo. Era come cadere su un tavolo. Ricordo che nella prima gara provinciale mi ero mangiata tutte le unghie per la tensione». Parliamo di un altro record, quello mondiale a Brescia nel 1978: 2,01. È vero che non c’erano giornalisti allo stadio, e nemmeno una ripresa della Rai? «Si, perché erano tutti a Venezia a seguire il meeting internazionale degli uomini, impegnati anche loro nel confronto con la Polonia. Dopo, siccome sono andata a raggiungere la squadra per festeggiare insieme il mio risultato, tutti giornalisti mi dicevano che avrei dovuto avvisarli che avrei tentato il record. Ma io come potevo saperlo prima?».
«I Giochi della Gioventù erano un appuntamento
che avvicinava i ragazzi alle competizioni, in modo serio e senza fanatismi. La scuola non deve creare campioni, ma contribuire a far crescere la cultura e i valori sportivi»