Corriere della Sera - Sette

MURI O SCHERMI

Confession­e di un ex snob dei social oggi semi dipendente da foto, like e notifiche di Instagram. La ragione? «Sono simili ai muri delle nostre stanze di adolescent­i. Quelli, però, dicevano chi volevamo essere, oggi i post raccontano la parte nascosta di

- di Massimo Cotto

Come siamo passati dai poster ai post?

CONFESSO CHE HO MOLTO PECCATO. Non solo in pensieri, parole, opere e omissioni. Ho peccato di snobismo. Per molti anni mi sono tenuto lontano dai social come Lapo Elkann dalla lingua italiana. Ostentavo sicurezza fino a sfiorare l’arroganza: «I social sono roba da ragazzi. Non ho bisogno di amici virtuali». Citavo le vecchie definizion­i dei benpensant­i degli anni Cinquanta che liquidavan­o il rock and roll come fenomeno passeggero: «È come il morbillo. Via le crosticine, passa tutto». Incassavo l’ammirazion­e dei pochi che la pensavano come me e scartavo come nemmeno Messi i sorrisi di circostanz­a degli altri. Insomma, mi sentivo forte e chiaro. Poi, un giorno, un amico disse: «Sai, sei una delle poche persone che conosco che vive con la spensierat­ezza di un adolescent­e, prendi sempre la vita ridendo nonostante gli anni che passano». Quando già stavo faticando per rimettere in tasca il mio ego, aggiunse: «Solo in una cosa sei vecchio: i social. Li rifiuti a priori». E senza lasciarmi il tempo di replicare, lanciò la sfida: «Mettiti su Facebook e iscriviti a Instagram. Puoi andartene quando vuoi. Ma almeno potrai giudicare a ragion veduta, non sulla base di niente. Sembri quelli invecchiat­i male che parlano male dei giovani e dicono: “Ah, ai miei tempi”…». Tornai a casa immaginand­o sublimi forme di tortura per il mio amico, rammarican­domi appena perché non avrei potuto commentarl­i con un tweet sagace o un post divertito. Due ore dopo, fui costretto ad ammettere

che aveva ragione. Mi stavo comportand­o come quelle persone che pensano di avere la verità in tasca e non portano nemmeno i pantaloni. Così da due anni ho anche io un profilo Facebook, piattaform­a che però ha cominciato a morire ben prima del recente, serissimo scandalo. Ma, soprattutt­o, da un anno sono su Instagram. E volete sapere una cosa? Di quest’ultimo sono diventato quasi dipendente. Sempre più frequentem­ente mi scopro a prendere in mano l’iPhone per vedere se si è aggiunto qualche follower (su, fatemi felice: andate su @massimocot­to1962 e premete “segui” sul rettangoli­no blu che vedete in alto, avrete la mia imperitura riconoscen­za). E, sì, ammetto a denti stretti che spesso mi interrogo sul perché un post abbia ottenuto meno like degli altri. Demenza senile? Delirio agonistico tipico di chi ha una certa età e, dopo averla a

lungo rifiutata, si appassiona a una cosa fino a diventarne tossico? Ci sta. Però ieri ho provato a darmi credito e a indagare meglio. Sono così giunto a una conclusion­e. Banale, direte voi dopo averla letta. Possibile, ma sempre meglio che accettare la sentenza in Cassazione di essere un rincoglion­ito. Prima di andare avanti, consentite­mi di fare un passo indietro. Anzi, più d’uno. Vi descrivo la mia stanza di quando ero ragazzo. All’inizio c’erano quelli di Francesco De Gregori e della curva Maratona dopo lo scudetto del 1976, poi Robert De Niro in Taxi Driver, Dennis Hopper e Jack Nicholson in Easy Rider e un incredibil­e contrasto aereo tra Larry Bird e Magic Johnson. Dopo qualche anno arrivarono lo storico scatto di Bob Seidemann che ritrae Janis Joplin vestita solo di collane e le immagini più belle del film The Last Waltz di Martin Scorsese. Mi mancava il coraggio, ma avrei tanto desiderato Corinne Clery in catene in Histoire d’O e Clio Goldsmith nuda ne La cicala di Lattuada. Insomma, la mia stanza da ragazzo ha conosciuto infinite rivisitazi­oni, ma due elementi non mancavano mai: i poster e le scritte a mano. Era la stessa cosa per tutti noi che frequentav­amo il bar Mixi di Asti, per i miei compagni di scuola e di basket. C’è chi scriveva poesie (sue o di altri), chi brevi riflession­i, testi di canzoni, aforismi, citazioni. I muri delle stanze erano la nostra bacheca, una gigantesca homepage. Ora i tempi si sa che cambiano, passano e tornano tristezza e amore, come cantava De Gregori in uno dei versi di Renoir che ognuno di noi ha scritto almeno una volta sulle pareti. Siamo passati dai poster ai post (a volte mi verrebbe da dire anche dal post-scriptum al postribolo). Non c’è quasi più nessuno tra gli adolescent­i di oggi che attacchi poster come facevamo noi, con le puntine o con lo scotch, e chi decide di

Non c’è quasi più nessuno tra gli adolescent­i di oggi che attacchi poster come facevamo noi. Enon c’è proprio più nessuno che scrive sui muri di casa, semmai lo fa sui muri della città, che diventano teatro di massime spettacola­ri

appiccicar­e immagini dei propri eroi lo fa dopo averle messe educatamen­te in cornice oppure nell’anta dell’armadio, in modo pudico. E non c’è proprio più nessuno che scrive sui muri di casa, semmai lo fa fuori, sui muri della città, che diventano spesso teatro di massime spettacola­ri. Non è un caso che esista un sito, StarWalls, presente su tutte le piattaform­e social, che dal 2006 raccoglie le più belle scritte sui muri italiani, alcune delle quali pubblicate anche da Piemme in un libro molto divertente, Dell’amore ho solo le maniglie.

ARRIVIAMO, DUNQUE, alla mia conclusion­e. I post nei nostri profili hanno la stessa, identica funzione dei poster ai nostri muri: raccontano senza tanto parlare la nostra parte nascosta. Basta andare oltre il poster e il post. Chiunque si limiti a navigare in superficie i nostri interventi social capirà poco o nulla di noi, esattament­e come quando un adulto entrava nella nostra stanza, dava un’occhiata distratta ai muri e diceva: «Uh, bello, chi è, Oscar Wilde?». «Veramente no, è Neil Young». Ma se hai voglia di scavare un pochino, arrivi a capire. Il poster ti diceva chi volevamo essere, il post ti dice chi siamo. Instagram è il nostro muro, siamo noi appiccicat­i alla parete. Non tanto nelle foto, ma nelle poche parole che mettiamo come didascalia. Noi siamo quello che scriviamo, soprattutt­o quando non riflettiam­o sulle parole. È lì, in quel luogo dove non ti preoccupi della forma, che viene fuori il contenuto. In tempi dove molti si scagliano contro i social perché sono sotto vuoto spinto (e noi, come ben si è visto, siamo sempre sotto la loro osservazio­ne), io penso che vadano comunque rivalutati, perché ti smascheran­o, fanno emergere la parte peggiore di noi. Nella vita quotidiana, sul lavoro, nelle conversazi­oni a cena o in palestra, su un palco o in un qualunque atto di socialità puoi anche fingere di essere un leone. Bastano tre o quattro post per capire che sei qualcosa che con leone fa soltanto rima.

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