QUELLI DELLO SCALONE DI VIA SOLFERINO 28
Arrivato al Corriere nel 1925, partecipò all’impresa per raggiungere l’Artico. Aveva perso il turno per la trasvolata lanciando una monetina, ma l’esploratore Umberto Nobile lo volle subito con sé. Il collega che prese il suo posto morì nel secondo volo:
Cesco Tomaselli. L’inviato che si giocò la fama a testa o croce
«CON TOMASELLI NON SI PUÒ RAGIONARE: prima di tutto pensa al giornale!». Così – scrive Mario Cervi nell’affettuoso e commosso ricordo del grande inviato e amico all’indomani della morte – dicevano di lui certi colleghi. Per la serietà, lo scrupolo, la pignoleria, l’attenzione maniacale con cui confezionava ogni servizio, al quale avrebbe sacrificato persino la vita. Controllava tutto, non si fidava delle voci: voleva sempre vedere di persona. Era capace di aspettare per ore al freddo, all’aperto, magari di notte, pur di conoscere un particolare che probabilmente non avrebbe nemmeno inserito nell’articolo. Non mollava mai; esempio e maestro la cui sola presenza, scrive sempre Cervi, «inchiodava i più indolenti e approssimativi all’attesa e alla ricerca della notizia, senza poter sgarrare di un millimetro», rendendoli qualche volta furiosi. «Per lui», ha detto Montanelli, «il giornalismo era milizia e missione». Francesco Tomaselli, detto Cesco, classe 1893, veneziano. Era arrivato alla carta stampata a 28 anni, dopo una laurea in Lettere conseguita al termine della Grande Guerra nella quale, ufficiale degli alpini, ferito e decorato, aveva combattuto al fianco dell’amico Cesare Battisti. Assunto nel 1921 come cronista alla Gazzetta di Venezia, era entrato al Corriere della Sera nel 1925, dopo un veloce passaggio al Secolo. Sul foglio di via Solferino, di cui divenne uno degli inviati più letti, scrisse per tutta la vita, fino al novembre 1963, quando una fitta al petto gli fermò il cuore. Aveva 70 anni. Nei giorni prima era apparso improvvisamente stanco. Il passo da uomo di montagna, che per il giornale lo aveva
condotto in Giappone, Cina, Unione Sovietica, corrispondente di guerra in Etiopia e in Spagna, testimone nel secondo conflitto mondiale della ritirata delle divisioni alpine sul fronte del Don, si era trasformato in un incedere lento. In silenzio, più come una comparsa che un protagonista, saliva a fatica i gradini della scala che lo portavano al suo ufficio al secondo piano. I gradini di quello Scalone che oggi lo ricorda nella sua galleria di firme con un ritratto in missione, mentre fuma su un prato, appoggiato a una pietra. Pantaloni corti e polo scura, è accigliato e pensieroso. Come indispettito da qualcosa che è andato storto. Perché anche in un lavoro fatto di imprevisti e contrattempi com’è il giornalismo, Tomaselli metteva metodo, organizzazione e disciplina, non lasciando mai niente al caso, dall’abbigliamento a ciò che c’era da sapere sul servizio che gli era stato affidato. Così, anche se il suo senso del dovere lo portava ad adeguarsi in fretta alle nuove situazioni, mal sopportava che le cose andassero diversamente da come era stato stabilito. Come quando, uno dei soli due giornalisti autorizzati a seguire la tragica impresa al Polo del dirigibile Italia di Umberto Nobile – il servizio che lo avrebbe reso famoso – la sorte gli scombinò i piani, salvandogli la vita.
IL PRIMO ANNO AL CORRIERE Cesco Tomaselli lo aveva passato confinato nella cronaca; giornalista anonimo, chino sul tavolo di redazione che Albertini aveva fatto costruire sul modello di quello del Times (il nostro c’è ancora, quello del Times non più). Finché nel 1926 si ritrova per caso con Nobile e l’esploratore norvegese Roald Amundsen, a bordo del dirigibile Norge in volo da Oslo a Leningrado per la conquista del Polo. La missione è un successo; così quando tre anni più tardi si decide di raggiungere l’Artide con un’impresa tutta tricolore, è Tomaselli che Nobile vuole sull’Italia. Mussolini dà il benestare, ma gli affianca anche Ugo Lago, un giornalista del Popolo d’Italia, organo del Partito fascista, togliendo così di fatto l’esclusiva al Corriere che quell’impresa aveva contribuito a finanziare. Raggiunta la base artica, il programma prevedeva tre esplorazioni della calotta, da compiere a ventaglio, tenendo sempre come punto di partenza la Kings Bay. Ma a quel punto, nel gruppo scelto c’era posto soltanto per un inviato. Così Tomaselli e Lago decidono di giocarselo a testa o croce. La moneta favorisce Lago: sarà lui il primo a partire, poi toccherà a Tomaselli, quindi ancora a Lago. Senonché Nobile, come racconta nelle memorie, decide di fare prevalere il diritto di anzianità e di cominciare da Tomaselli. Il resto è storia. La prima trasvolata si svolge senza incidenti, ma alla fine della seconda, a causa di una tempesta l’Italia si schianta sui ghiacci. Alcuni uomini vengono sbalzati sul pack, gli altri, rimasti sul dirigibile che aveva ripreso quota, spariscono per sempre. Fra questi l’inviato del Popolo d’Italia. Tomaselli continuò a seguire l’impresa, dalle ricerche alle polemiche che ne seguirono, prendendo sempre le difese di Nobile, posizione che non piacque al regime. Ma non digerì mai completamente la decisione della sorte, da cui continuò a sentirsi tradito; ebbe salva la vita, è vero, ma venne anche escluso da un drammatico finale che, pensava forse Tomaselli nel suo intimo, magari lo avrebbe risparmiato così da poterne scrivere. «La sorte “favorì” Lago», disse a Montanelli, ancora molti anni dopo.
SOLTANTO UNA VOLTA venne meno al comandamento che metteva la notizia prima di tutto. E fu con quella della propria morte, che chiese venisse comunicata a funerali avvenuti. Ennesima manifestazione del suo proverbiale pudore? Oppure una sorta di rivincita sul tempo alle cui leggi aveva dedicato la vita, ma a cui voleva almeno sottrarre la morte? Di certo fu il suo ultimo desiderio di riservatezza. Che il Corriere esaudì.