LA LONTANANZA - ISRAELE
2018: un inviato di guerra del Corriere torna ad attraversare Israele su due ruote, come aveva fatto per la prima volta nel 1977, a vent’anni. Oggi nel Paese, preoccupato per gli eventi a Gaza e in Siria, tante cose sono cambiate: la popolazione, le città
Pedalando nella terra promessa
CEMENTO, ASFALTO, nuclei urbani cresciuti a dismisura in pochi anni. Ormai l’intera fascia costiera da Tel Aviv verso Haifa brulica di grattacieli. E trionfano le autostrade che allargano le antiche straducole tra i campi coltivati dei kibbutz per creare una rete di comunicazioni veloci e all’avanguardia. Non era stato certo previsto che, proprio mentre ci tornavo a pedalare, nella vicina Siria soffiassero impetuosi venti di guerra con gravi implicazioni internazionali e che nella Striscia di Gaza si riaccendessero le tensioni. Ma queste sono le costanti delle dinamiche regionali. E Israele ne è parte integrante. Gli ultimi giorni delle due settimane del mio viaggio, nonostante le strade immerse nel verde che pedalavo sul Golan e poi a pochi metri dal confine col Libano sembrassero calmissime, i jet israeliani attaccavano le basi iraniane in Siria e stava consumandosi la tragedia della popolazione in Ghouta.
L’ESTATE DI QUARANT’ANNI FA impiegai cinque ore in bicicletta dalla zona dell’aeroporto internazionale per raggiungere Gerusalemme sulla vecchia provinciale che passava per il monastero trappista di Latrun, sfiorando le autoblindo danneggiate nella guerra del 1948 e trasformate in monumenti nazionali. C’era netto il senso di lasciare la costa abitata per
inoltrarsi verso le montagne della Cisgiordania fatte di wadi desertiche, paesini arabi e natura pulita. Pochi giorni fa ho dovuto evitarla perché è chiusa alle due ruote a pedali. L’antica strada è irriconoscibile, il paesaggio assolutamente diverso: sostituiti da una striscia grigia a otto corsie contornata da nuove cittadine ebraiche destinate a creare una gigantesca continuità abitativa tra Gerusalemme e Tel Aviv. «Terra di Sion, con il nostro amore ti rivestiremo di cemento», cantava un inno sionista novant’anni fa, esaltando l’ethos costruttivo e positivista dei pionieri convinti di stare edificando un “ebreo nuovo” nella “terra dei padri”. Adesso che il sogno è stato realizzato a 70 anni dalla nascita dello Stato, il problema dell’Israele prosperosa patria dell’high tech – quasi non toccata dalla crisi delle economie mondiali un decennio fa, ma anzi in piena crescita, con il tasso di disoccupazione inferiore al tre per cento e una sempre più forte classe di cittadini affluenti – è piuttosto quello di salvare la propria natura, preservare il verde assieme alle zone di wilderness nel deserto del Negev, lungo il Mar Morto e in Galilea, prima che il cemento del progresso soffochi completamente anche le ultime bellezze naturali. Non c’è modo migliore per visitare un Paese che percorrerlo in bici. Si
va piano abbastanza per cogliere i profumi, il clima, conoscere i dettagli delle esistenze di chi ci abita. Ma allo stesso tempo ci si sposta in modo sostanziale su distanze che nulla hanno a che vedere con chi va a piedi. E l’allenamento cresce con il trascorrere dei giorni. Erano anni che vi pensavo: tornare sulle strade che pedalai in solitaria diciannovenne su una vecchia Olmo a sei cambi di mio padre l’estate del 1977 con tre borracce e un bagaglio minimo di quattro o cinque chili. Oltre 2.000 chilometri in poco meno di due mesi, con lunghe tappe in quelli che allora erano tra i miti (amati e spesso contestati) della nostra generazione: i kibbutz, le comuni agricole, dove era possibile quasi sempre ottenere vitto e alloggio anche senza preavviso in cambio di otto ore di lavoro quotidiano nei campi. La 101esima edizione del Giro d’Italia, con le tre prime tappe in Israele, è stata un ottimo aggancio. In due settimane ho ripetuto larga parte di quei percorsi su una bici infinitamente migliore, escludendo però il deserto del Sinai, pedalato allora lungo il mare da Eilat sino a Sharm el Sheikh, che da dopo gli accordi di Camp David nel 1979 è tornato all’Egitto. È proprio «l’arte della bicicletta» ad aiutare a capire i cambiamenti subiti dal Paese. «Oggi le bici sono uno status symbol, dalle mountain bike al meglio dei modelli da strada, in particolare questi ultimi, che sono diventati un must per tanti tra imprenditori, liberi professionisti e comunque personaggi di successo», ricorda il 69enne Chanoch Marmari, ex direttore del quotidiano Haaretz, oltre che appassionato ciclista della prima ora e autore di un best seller sul tema, pubblicato nel 2005. Parole verificabili da chiunque al bar di Latrun e all’ormai mitico “Barbahr”, sulle colline di Gerusalemme, dove ogni weekend e spesso durante i giorni feriali migliaia di ciclisti si
ritrovano per caffè e torta. «Tanti ci vengono anche per concludere affari. Si siedono ai tavolini con il computer dopo l’allenamento e lavorano. È talmente di moda che qualcuno ci arriva vestito da ciclista, si siede per gli appuntamenti, si aggiorna sulle novità, quindi se ne torna a casa nel pomeriggio senza neppure aver tirato giù la bici dall’auto», racconta Andres, noto proprietario di un negozio di ciclismo della capitale.
A LORO DIRE «l’ottimismo della bicicletta» è un fenomeno ampio, investe oltre 10mila appassionati che dispongono del top delle due ruote in carbonio importate da Stati Uniti, Francia, Germania, Belgio e soprattutto Italia. Un desiderio d’evasione, vita sana e viaggi che portano inevitabilmente a far dimenticare i problemi della regione, le tragedie in Siria, le tensioni che si bruciano tutto attorno. L’ultimo venerdì delle ferie pasquali, proprio mentre ai confini della Striscia di Gaza si consumava uno degli scontri più sanguinosi tra esercito israeliano e giovani palestinesi mobilitati nelle “marce del ritorno” organizzate da Hamas, un centinaio di membri della Federazione ciclistica israeliana si cimentava in una serie di duri allenamenti sugli strappi del Monte Hermon e lungo le alture del Golan. «Non possiamo sempre pensare alla guerra. L’importante è che resti al di là del confine. Noi vogliamo vivere e divertirci. La nostra preoccupazione del momento è trovare gli sponsor per organizzare qualche Gran Fondo europea in vista di una nostra futura partecipazione al Giro o al Tour», sostenevano i cadetti minorenni del Tacc, uno dei maggiori team di Tel Aviv, tutti rigorosamente con le stesse divise rosse e nere fornite dalla Castelli e in sella a Bianchi e Bottecchia nuove di pacca. È un universo assolutamente altro rispetto a quarant’anni fa. La
popolazione ebraica è raddoppiata, da tre a sei milioni di persone, il reddito medio è aumentato e con esso la capacità d’acquisto. Allora si mirava alla sopravvivenza, oggi tanti pensano alla qualità della vita, se non al lusso. Ciò che è accaduto in questi anni si può forse in qualche modo paragonare al boom economico che investì l’Italia negli anni Cinquanta. L’Israele del 1978 era un Paese sulla difensiva, traumatizzato, ancora in lutto per lo shock subito nella guerra del 1973, quando l’euforia della vittoria lampo del 1967 venne eclissata dall’evidente impreparazione nel fronteggiare gli eserciti egiziano e siriano a caccia di rivalsa. Quando i carri armati siriani scesero dal Golan verso Tiberiade, per un attimo Golda Meir pensò di ricorrere in extremis all’atomica, furono aperti i silos di Dimona con i missili a testata nucleare. Furono poi gli americani a evitare il peggio avviando il ponte aereo con gli aiuti militari. David Ben Gurion sul letto di morte aveva addirittura prospettato l’incubo di un secondo Olocausto, ma questa volta per gli ebrei israeliani a suo dire pessimisticamente condannati per sempre alla guerra con gli arabi. Dalla mia sella vedevo una società povera, spartana, semisocialista suo malgrado, dove andare al ristorante una volta al mese era quasi un lusso e viaggiare all’estero un sogno realizzabile solo da pochi fortunati. Restava radicata l’idea che trascorrere le vacanze in Germania (senza neppure parlare di spostarvi la residenza) equivaleva a un alto tradimento nei confronti delle vittime della Shoà. Le spiagge di Tel Aviv erano sporche, inquinate, semivuote. Il sogno dell’israeliano medio era possedere un appartamentino in centro e possibilmente un’utilitaria. I KIBBUTZ, come del resto i valori della società agricola dei pionieri, erano in crisi profonda. Si abbandonavano i campi, ma le industrie nazionali non erano pronte ad accogliere nuova forza lavoro. Non era ancora scoppiata l’intifada. I palestinesi di Cisgiordania e Gaza lavoravano in massa sottopagati nei cantieri edili del centro del Paese. La società israeliana era lacerata dallo scontro interno tra askenaziti (ebrei originari dell’Est europeo) e sefarditi immigrati dal mondo arabo. Un giorno, arrivando in bici a Kibbutz Snir sulle pendici del Golan, ho scoperto che tutte le quaranta famiglie fondatrici dell’insediamento nel 1968 sono invece rimaste. Nel 1977 sembrava che i più volessero andarsene. I giovani vedevano quel mondo come vecchio, superato, incapace di modernizzarsi. Erano esasperati dalla burocrazia, dal collettivismo che imponeva di studiare solo materie utili al bene comune. Per esempio, gli studenti più dotati potevano iscriversi alla facoltà di Agraria, ma non a Filosofia
o Lettere. Adesso nessuno impone più nulla. Vige la libera scelta. Così 62 figli dei nuclei originari, che se ne erano andati in città e all’estero, hanno scelto di tornare. Sono dati comuni ai 274 kibbutz del Paese: contano 241.000 membri, ma per tutti ci sono lunghe file di aspiranti alla piena residenza. «Il fatto è che l’intero movimento kibbutzistico è profondamente cambiato. Ci siamo adattati. Non ci sono quasi più strutture in comune come la mensa o l’asilo per i bambini. Siamo diventati una società capitalista e individualista, ma con alcuni forti valori condivisi. La maggioranza dei membri lavora fuori dal kibbutz e si tiene il proprio stipendio», spiega Nurit Shafran, la 64enne segretaria di Snir. Le piante che allora non facevano ombra sono diventate alte
e frondose. Ognuno ha la propria vettura. Il 45enne Oren Dvoskin, che con la moglie e tre figli piccoli vive nel kibbutz da tre anni, ne parla da entusiasta. «Siamo una società ricca. Vedo che tanti trascorrono le vacanze all’estero. Io stesso vivo qui anche perché posso allenarmi con la mia bici sulle colline dell’alta Galilea e sino a Tiberiade», spiega. Circa 15 per cento del salario lo versa per l’elettricità, oltre alla piscina con centro sportivo annesso, le scuole per i figli e il mantenimento dei giardini in comune. Lavora come informatico alla Sasa Software, una ditta che esporta prodotti per difendersi dagli hacker anche in campo militare. Dice: «Ultimamente vendiamo tanto in Arabia Saudita e tra i Paesi del Golfo. Sono molto preoccupati dalle tensioni con l’Iran e non hanno alcun problema a trattare con noi israeliani, purché tutto avvenga in modo discreto».
PEDALANDO DI SABATO alla collinona di Safad ecco un’altra sorpresa. Questa che era una città rifugio per artisti e sessantottini scanzonati, ricca di localini dove bere vino importato dall’Europa e gallerie di quadri, è diventata la roccaforte dei religiosi ortodossi. Ogni cento metri una sinagoga o un centro di studi della halacha, la legge ebraica tradizionale. Durante le feste tutto è chiuso, come nei quartieri più ortodossi di Gerusalemme. «Una vera tragedia. Noi israeliani laici stiamo diventando minoranza a casa nostra. Siamo sempre più circondati dai religiosi», esclama il 71enne Jakob Stroulovish, incontrato per caso mentre mostra alla moglie e ai figli la sua abitazione natale. Disperato si è comprato un appartamento sul lungomare di Haifa, dove come a Tel Aviv si
ritrovano gli irriducibili tra i laici. Sua moglie sta leggendo il nuovo libro di Tom Segev su David Ben Gurion. Una biografia acuta e dissacratoria che ha già scatenato le reazioni indignate dei vecchi laburisti.
SCENDENDO VERSO SUD il livello del lago di Tiberiade è particolarmente basso. Ma ancora di più lo è quello del Mar Morto, dove molte spiagge sono state chiuse. Il ritiro delle acque causa crolli e smottamenti improvvisi. Anche le strade per Eilat sono completamente cambiate. Erano strette, con l’asfalto deformato dal caldo. In bici si doveva fare molta attenzione. Ora sono ottime, larghe e ben tenute. Al punto di frontiera di Taba con l’Egitto agli inizi di aprile il termometro segna 32 gradi. Nel luglio del 1977 superava i 47. C’erano i soldati israeliani lungo il Mar Rosso a donare ghiaccio ai rari passanti. Adesso una lunga fila di giovani israeliani si recano sulle spiagge egiziane per il semplice fatto che «sono più belle e costano poco». Un esempio? Una cena a base di pesce a Eilat costa almeno 50 euro, nel Sinai egiziano otto o nove. Dai megafoni militari sconsigliano in ebraico di passare dall’altra parte per «rischio terrorismo». Ma un gruppetto di giovani appena arrivati in bus da Haifa con zaino e sacco a pelo alzano le spalle e rispondono: «Dicono così solo per liberarsi da ogni responsabilità. Noi passiamo lo stesso».