« L’italianità artistica in America? Rischia di perdersi nella nebbia »
Gli USA sono la seconda patria del direttore d’orchestra italiano, appena confermato sul podio della Chicago Symphony Orchestra fino al 2022. In America ha diretto concerti contro il riarmo nucleare, nelle carceri minorili, tributi a Martin Luther King. S
LA LUCE DEL PRIMO MATTINO si rifrange sullo specchio d’acqua del Lago Michigan, invade le stanze del salone al quarantaseiesimo piano del grattacielo dove Riccardo Muti risiede quando è a Chicago. Mentre lo osserva forse gli ricorda il golfo dell’amata Napoli. La città dove il direttore d’orchestra è nato. Per decisione della madre Gilda: radici partenopee, sposata a Domenico, medico di Molfetta, là mette su famiglia. Riccardo e i quattro fratelli però nascono all’ombra del Vesuvio. Perché? Mamma Gilda, spiega ai figli: «Se un giorno andrete in giro per il mondo e finirete, che so io, in America, quando vi chiederanno dove siete nati e risponderete “A Napoli”, vi rispetteranno». Riccardo Muti negli Stati Uniti ci è finito, molta parte della sua vita là si è svol-
ta, in periodi diversi e coronata da successi. Inizia nel 1972, primo concerto con la Philadelphia Orchestra: il New York Times lo definisce Master of Baton, il Signore della bacchetta. «Alzavo la bacchetta e affondavo il braccio in un magma di suoni di potenza e densità inimmaginabili», ricorda Muti: ne diviene direttore musicale dal 1980 al 1992. Si congederà dalla città della Liberty Bell solo perché l’impegno con la grande orchestra Oltreoceano non poteva più conciliarsi con un’altra direzione musicale, in Italia, al Teatro alla Scala. Chiusasi l’esperienza scaligera, l’America lo rivuole. A partire dal 2005 se lo contendono la New York Philharmonic e la Chicago Symphony Orchestra: vince quest’ultima. Un pressante corteggiamento lo scippa ai colleghi di Manhattan; dopo una trionfale tournée, nel 2010 Muti ne accetta la direzione musicale. Un sodalizio. Recente l’annuncio della riconferma fino al 2022. 12 settimane all’anno sulle rive del lago Michigan e brevi momenti di pausa spesi a Ravenna nella casa di famiglia. Dove nel salone è sempre allestito un presepe napoletano del ‘700: «Sono andato a cercarlo a San Gregorio Armeno, un frammento di anima partenopea. La ritrovo ogni volta che ritorno in Italia», rivela mentre osservo affascinato il piccolo capolavoro. Del resto gli States sono diventati come la sua seconda patria e solo un altro direttore d’orchestra italiano, Arturo Toscanini, può vantare un rapporto così stretto, duraturo e di successo. Tant’è. Oggi Muti può scrivere un suo “C’era una volta in America”. Philadelphia e Chicago, due città simbolo degli Stati Uniti, divenuti sua seconda patria, vissuta e osservata in momenti storici differenti. «Quando sono tornato nel 2007 a Chicago, dopo trent’anni dai primi concerti con l’orchestra per le prove della tournée, dissi ai musicisti: “Ero un giovane direttore, la prima volta in cui ci siamo incontrati. Spero ora non ritroviate solo le sue rovine”. Diedi l’attacco della Terza Sinfonia di Prokofiev: fu come ricominciare un idillio ( Muti mi mostra poi un cofanetto con le 60 lettere scritte a mano dai musicisti della Chicago dopo la tournée, colme di ammirazione, le conserva nello studio di Ravenna, tra i ricordi più cari, ndr). Certo, ironizzavo sugli anni trascorsi. Ma era tutto cambiato». In che modo? «Cambiato io, come uomo e artista. Tante esperienze umane fatte, arricchito il repertorio: i titoli operistici, tra gli altri, di Mozart, Gluck, Wagner e molto Verdi; il grande sinfonismo romantico e contemporaneo. Era però cambiata pure l’America. La mia prima volta, era l’America degli anni Settanta; io poco più che trentenne ( ma già affermato: 1968, Muti diventa direttore musicale del Maggio Musicale Fiorentino, ndr), la consacrazione di un giovane direttore italiano negli Stati Uniti. Dirigevo a Chicago e di lì a poco sarei divenuto direttore musicale a Philadelphia: la città dei padri della Costituzione. Ecco i grattacieli, le auto enormi; le giacche maschili, dalle proporzioni allungate, lontane da quelle europee a cui ero abituato. In me un vulcano di emozioni. Emozioni forti, differenti, ma indimenticabili come il giorno in cui da Napoli arrivai a Milano». Invece questa nuova avventura? «Ritornare negli Stati Uniti, nella Chicago del Terzo Millennio ha significato confrontarsi con una nuova America. Ma mi sono trovato ancora una volta come a casa. Chicago è la citta del Midwest, l’America più genuina e volitiva, forse meno sofisticata rispetto a Philadelphia, una metropoli in continua trasformazione. Simbolo dell’architettura moderna, capitale di blues e jazz. Ma è anche intrisa di italianità. La città dove Enrico
«Durante la presidenza Reagan ho diretto un concerto contro il riarmo nucleare. Le armi sono un argomento sentito negli Stati Uniti, allora come adesso con la presidenza Trump»
«L’America deve molto all’Italia. Benjamin Franklin, padre della Costituzione, era amico del giurista napoletano Gaetano Filangieri, con cui si confrontava»
Fermi ha insegnato all’Università dove oggi gli è stato dedicato un istituto di ricerca. Dove è conservata una colonna di epoca romana. Posta al termine della Balbo Drive, la strada dedicata a Italo Balbo per ricordare la traversata aeronautica del 1933 dall’Italia all’America. Lo so che sto citando Balbo ( la risposta al mio sguardo interrogativo, ndr). Ma qui la politica non c’entra, parlo di un’impresa valorosa fatta da un italiano. La politica c’entra sempre. Negli Stati Uniti, poi. Lei dirige nella città di Obama, uno dei cinque presidenti a stelle e strisce succedutisi durante il suo C’era una volta in America: Carter, Reagan e George H. W. Bush mentre era a Philadelphia; oggi la Chicago di Trump. «Ingerenze politiche non ne ho mai avute o subite, come non è mai accaduto in Italia. Però la musica non è mero intrattenimento, ma fatto sociale e umanitario. Come non può essere strumentalizzata, ed è accaduto in epoche nefaste, a livello partitico e politico. Dato di fatto però, certe scelte artistiche hanno valenza sociale, riflesso politico. Mi sono sempre battuto in difesa della cultura e delle tradizioni del mio Paese; sostenuto la formazione delle nuove generazioni. Anche in America mi sono mosso e continuo a farlo, in difesa di valori culturali e sociali». Si riferisce a episodi in particolare? «Durate la presidenza Reagan ho diretto con la Philadelphia un concerto contro il riarmo nucleare. Le armi, argomento molto sentito negli Stati Uniti, allora come adesso con la presidenza Trump. Ero in sintonia con le richieste che mi erano state fatte dai musicisti. Fuori dal teatro
«A malincuore mi sono reso conto di come qui l’immagine dell’Italia sia ancora da cartolina, come nei racconti degli emigranti del XX secolo. Il nostro Paese ha poco risalto»
c’erano contestazioni: due uomini sandwich manifestavano a favore del riarmo nucleare. Il segnale era forte. Ma la musica ha vinto. Perché è arricchimento spirituale. Un altro episodio. Nel 1991 a Philadelphia ci fu un concerto tributo a Martin Luther King: in programma A Lincoln Portrait di Copland con voce recitante: la interpretò anche Obama quando insegnava a Chicago; all’epoca invece c’era Julius Erving, il celebre Doctor J, superstar afroamericana di basket ( Muti ha appena diretto il brano a Chicago con John Malkovich e lo replicherà in luglio al Festival di Ravenna, ndr). Il coro era costituito solo da afroamericani, come il 90% del pubblico. Non mi era mai capitato fino ad allora. Mi venne pure chiesto di eseguire Lift Every Voice and Sing, l’“Inno nazionale” degli afroamericani. Momento intenso, tutti in piedi. Vedere per la prima volta in America una platea con così tanti afroamericani mi fece riflettere. C’era ancora molto da fare». Riguardo a cosa? «Sarà la composizione multietnica della società americana, i problemi socioculturali che ancora gravano sulla popolazione afroamericana, ma alla fine risulta che la comunità, quella a cui ci si rivolge, sia communitas solo in astratto. A Chicago quel concerto per Martin Luther King oggi ha ispirato l’African American Network, un nuovo progetto, coordinato da Sheila Jones, intraprendente donna di colore, per la raccolta fondi tra i membri più ricchi della comunità nera al fine di sviluppare progetti di formazione. Specie dei giovani. Fondamentale per me. Ho diretto in campus universitari ( come Chapel Hill, in Carolina del Nord, ndr); suonato con gli strumentisti della Chicago e i cantanti della Lyric Opera nelle carceri minorili maschili e femminili della città come l’Illinois Youth Center. Concerti gratuiti nell’Apostolic Church of God e al Millennium Park: davanti a 30mila persone. Però nonostante siano ben 800 le compagini iscritte alla League of American Orchestras, e tutte sostenute solo da sponsor privati, molti strati della società sono ancora tagliati fuori da questo mondo». Nel “C’era una volta in America” di Riccardo Muti l’Italia e italianità che ruolo giocano? «C’è uno scambio reciproco. Sia a Philadelphia sia a Chicago mi sono reso conto di come la tradizione musicale strumentale italiana del XIX e XX secolo fosse radicata: l’italianità di Ottorino Respighi e Giuseppe Martucci. Autori amati ed eseguiti in concerto negli Stati Uniti da Mahler, come da Toscanini. I primi che ho messo in repertorio quando sono giunto Oltreoceano. E proprio l’insegnamento toscaniniano quello di “far cantare” ogni sezione dell’orchestra anche quando si esegue il melodramma, ha fatto sì che potessi dar vita a uno scambio reciproco con la Chicago Symphony. Il Verdi eseguito con loro, ha conquistato il mondo: due Grammy dati alla Messa da Requiem. Un lavoro graduale, fatto anche eseguendo in forma di concerto i titoli d’opera verdiani: nel 2019 sarà la volta di Aida. Se questo è un grande traguardo, a malincuore mi sono reso conto di come qui l’immagine dell’Italia sia ancora da cartolina, come nei racconti degli emigranti del XX secolo. Come il nostro Paese abbia poco risalto. I media americani parlano di Macron e la Merkel, di Theresa May e della Brexit. L’Italia? Citata per malasanità e camorra. Ma a Napoli ci sono uomini che lottano proprio per sconfiggere queste piaghe.
Auspicherei un maggior impegno da parte delle nostre istituzioni. Meglio meno eventi e più costanza. Cerco di farlo ogni giorno dirigendo. Chicago è gemellata con Milano. Lo sapeva? Ma questo legame è quasi sconosciuto. Pensi allo scambio tra ricercatori, noi abbiamo istituzioni come il San Raffaele. Non siamo secondi a nessuno. L’America deve molto all’Italia: Benjamin Franklin, padre della Costituzione era amico di Gaetano Filangieri, si confrontava con questo giurista partenopeo. Provo profonda tristezza. Vorrei fare di più per evitare che la cultura italiana, l’italianità artistica e musicale si dissolvano nel nulla. Come in Amarcord di Fellini, quando il nonno esce di casa e dopo pochi passi dice “Ci siamo persi nella nebbia”. Questo non deve accadere».