Cannes premia Francesco Montanari per la serie low cost Il Cacciatore
NON HO MAI PENSATO di essere lo spettatore tipo della tv generalista e capisco che il mio frequente, munchiano orrore davanti allo schermo è l’orrore di colui che non appartiene al target per il quale la maggior parte della tv viene realizzata (se il target fossi io personalmente poi, la tv andrebbe in rovina: non ho mai tempo di guardarla, e quando lo faccio è solo per colpa di Beppe Severgnini). Per questo quando qualcosa in tv mi piace, e tanto, provo la sensazione di colui che ha trovato una pepita d’oro in un pacchetto di patatine molto unte e molto salate. È peraltro tristemente diffusa l’abitudine, parlando di serie tv in questi anni di presunta età dell’oro del genere, di esaltare quelle americane (alcune – non moltissime però – sono straordinarie, non c’è dubbio) dimenticando che l’Italia, in materia, ha fatto e sta facendo benissimo nei tristi limiti produttivi e commerciali del nostro Paese dei quali produttori, registi, attori non hanno responsabilità. Ecco, gli attori: è per me fonte di gioia sincera la notizia della vittoria clamorosa, tanto inaspettata quanto bella, in trasferta, di Francesco Montanari. Vincitore del premio per la miglior interpretazione maschile a Canneseries, primo festival dedicato alle serie tv a Cannes. È, di fatto, un Oscar televisivo. E l’ha vinto un italiano. Per una serie italiana – Raidue, complimenti – che racconta una storia italiana e si chiama Il Cacciatore. Storia vera di un magistrato coraggioso, Alfonso Sabella (consigliato il suo libro, Cacciatore di mafiosi, edito da Mondadori). Quelli che Montanari l’avevano magari sì applaudito nei panni del Libanese in Romanzo Criminale – un’interpretazione di riferimento in una serie di riferimento – ma temevano che lui, così straordinariamente bravo a raccontarci allora la storia di un gangster, avesse dei limiti tecnici e magari una condanna a interpretare sempre ruoli da malfattore, può gioire doppiamente per questa vittoria. Ottenuta nei panni di un servitore dello Stato, moralmente e anche fisicamente l’antitesi di “er Libbano”.
MONTANARI, 33 ANNI, che è un giovane uomo dai modi miti ed educati che nutre grande stima per Barack Obama e mal sopporta i rituali ad alto tasso di volgarità del mondo delle celebrities vere o presunte, a Cannes dal podio ha mandato un tenero «ti amo» alla moglie e ringraziato il suo agente. «Che mi aveva detto, in cinque anni ti porterò sul palcoscenico di Cannes. Ce ne sono voluti solo tre». Ad aggiungere prestigio al premio, il nome del presidente della giuria: Harlan Coben, autore di thriller ( Se ti trovi in pericolo, Non dirlo a nessuno, Spariti nel nulla, editi da Mondadori).
GUARDANDO Il Cacciatore non si ha l’impressione che Stefano Lodovichi e Davide Marengo, i registi, abbiano avuto a disposizione un budget di genere hollywoodiano. Forse, anzi, un loro episodio costa come il catering di un episodio d’una serie americana: però la fotografia è molto bella, i costumi ci riportano al 1993 come i set e le auto. E poi Montanari ci aggiunge anche l’effetto speciale della sua bravura: l’abito chiaro che lo fa sembrare più minuto di quel che è, che non gli cade perfettamente addosso e le cravatte molto 1993 che oggi nessuno indosserebbe: tutto perché il suo magistrato ha cose più importanti – la giustizia – a cui pensare. Non ci racconta la vita di un santo improbabile ma di un uomo – ambizioso, anche. Gli antagonisti di Montanari non hanno nulla di carismatico come invece sono carimastici quelli di Gomorra: ne Il Cacciatore si spara molto, la brutalità delle scene di violenza prende gli spettatori alla gola, e i registi ci mostrano l’aspetto belluino della criminalità organizzata.