Corriere della Sera - Sette

MACCHINE DEL TEMPO

- Ricordi pilotati da Stefano Rodi

Gianni Motta: «La mia fuga davanti al Giro d’Italia»

ANDARE FORTE IN BICICLETTA, «soprattutt­o in pista, dove si corre senza avere i freni», osserva Gianni Motta, aiuta a guidare bene anche le auto. Per i riflessi, la scelta delle traiettori­e, la relazione tra velocità e ruote che si hanno sotto al sedere. Larghe o sottili che siano. Il rivale storico di Gimondi ha chiuso con il profession­ismo nel 1974, a 31 anni, ma non ha mai smesso di seguire le corse. «In quegli anni avevo un’azienda che produceva bici e abbigliame­nto sportivo, quindi tutte le tappe del Giro d’Italia erano occasioni per andare a trovare i negozi che le vendevano o cercarne di nuovi». Grazie al nome, e all’amicizia con il patron del Giro Vincenzo Torriani, godeva di un privilegio raro: poteva stare in mezzo alla corsa con la sua auto che, all’epoca, era un Maggiolone 1750. Truccato e dotato di ruote più larghe per poter tenere il passo dei corridori in discesa. Una volta, nel 1977, sulla picchiata dal Passo del Vivione, in provincia di Bergamo, la sicurezza alla guida fu la sua salvezza e soprattutt­o di chi lo seguiva. Era arrivato in cima precedendo il gruppo dei corridori ed era ripartito pensando che fossero più lontani. Invece, dopo la prima curva, ha visto nello specchiett­o che i primi erano a un centinaio di metri da lui. «Cercavo con lo sguardo un punto più largo della strada dove fermarmi e farli passare, ma non ce n’erano. Quindi l’unica soluzione era andare giù più forte che potevo, sperando che non mi raggiunges­sero. Tenevo la stessa distanza, ma non guadagnavo terreno. Dopo un po’ mi sono accorto che i freni, troppo surriscald­ati, funzionava­no meno. Un incubo. Alla fine ce l’ho fatta, ma è stata una discesa terribile».

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