CINEMA & LUOGHI COMUNI
Come viene raccontata l’Italia all’estero? Registi, scrittori e marchi puntano su Roma e Venezia, la luce delle piazze e le penombre della Chiesa, la corruzione spudorata e la bellezza sfrontata. Le nuove opere di Paolo Sorrentino e Luca Guadagnino fanno sorgere un dubbio: a questi stereotipi abbiamo finito per credere anche noi?
Napoli, un pizzico di Sicilia, Saint-Jimy e Lake Como e le ciiin-quey terrey. C’è la Chiesa con il suo sfarzo barocco, un’antistoricità fascinosa e al contempo sottilmente ridicola; ci sono i brand del crimine organizzato (alla ‘ndrangheta manca ancora una serie tv, ma la Sacra Corona Unita sta per averne una scritta da Niccolò Ammaniti e prodotta da Sky Atlantic, attualmente in onda); c’è un’idea di bella vita fatta di arte rinascimentale e verdeggianti poggi terrazzati, certo, ma anche di cibi e accessori di lusso, che al contrario degli affreschi possono avere il cartellino col prezzo. In questo non c’è niente di male: è una strategia di marketing internazionale particolarmente efficace, che va avanti da secoli e conta testimonial del calibro di Goethe. L’imprenditoria migliore del Paese, da Prada a Eataly, ha saputo sfruttarla con grande abilità. Il problema è che, a forza di ripetere lo slogan, abbiamo finito per crederci anche noi. Volenti o nolenti, per pigrizia o opportunismo o pura e semplice inclinazione a seguire la via di minor resistenza, le storie che raccontiamo su noi stessi finiscono per adagiarsi su questo stereotipo, o per rafforzarlo. Non sono le uniche storie che raccontiamo, ma sono le più efficaci. Ad esempio: Il divo, di Paolo Sorrentino, non è quel tipo di storia. C’è Roma, ma non la decadenza felliniana, né i templi in rovina; c’è la mafia, ma senza picciotti pittoreschi e rifugi in cascinali immersi nel grano; c’è un ritratto complesso e accattivante, memorabile, di una figura cruciale e piena di zone d’ombra della storia d’Italia. C’è anche un minuto e mezzo di cartoni, in apertura, per ricostruire il minimo di contesto indispensabile a seguire la trama (per intenderci, è più di quello che serve a George Lucas per spiegare la storia dell’Impero Galattico); e in decine di occasioni ci sono scritte in sovrimpressione che chiariscono chi è questo o quel personaggio. Bastano a stento: ricordo che quando Il divo è uscito negli Stati Uniti, un’amica a cui l’avevo raccomandato mi ha detto che, seppur bellissimo, l’aveva lasciata perplessa. “Ad esempio”, mi ha detto, “chi diavolo è Shee-ree-no Paw-me-shee-no?”. Ci ho messo parecchio a capire che parlava di Cirino Pomicino, e ancora di più a chiarirle, per sommi capi, che no, Sorrentino non lo aveva inventato.
QUESTO È INDICATIVO di un problema: nonostante i cartoni, il film dava per scontate molte informazioni; e quelle informazioni erano cruciali non tanto per capire il film, ma per vederlo davvero, per coglierne la grandezza. La forza di un’immagine dipende anche dalla sua capacità di riassumere in sé un contesto molto più vasto: per percepirla, quindi, quel contesto bisogna conoscerlo. La scena in cui Andreotti, nominato al suo settimo governo, interrompe la traversata di Palazzo Chigi perché un gatto gli sbarra la strada risulta memorabile solo per chi già ha un’idea del suo rapporto con il potere. La visione del tribunale di Milano in fiamme attraverso il vetro posteriore della limousine di Berlusconi è indimenticabile solo se si conoscono, almeno superficialmente, le sue vicende giudiziarie. Per dare queste informazioni, Il divo usa i cartoni, e l’espediente delle deposizioni dei pentiti; Il caimano usa i dialoghi torrenziali tipici di Moretti. Ma il pubblico non ama i cartoni e Sorrentino non ama i dialoghi torrenziali: e così in Loro 1 ha deciso
di fare senza, e raccontare una storia che non ne avesse bisogno. La tendenza era già presente: se Il divo provava a raccontare un’Italia diversa dal marketing nazionale, a complicarlo, La grande bellezza vi attingeva invece a piene mani: le informazioni di contesto erano già tutte lì. Al botteghino ha incassato più del doppio. In Loro 1 questa tendenza è persino più spiccata. Paradossalmente, sarebbe difficile immaginare qualcosa di più sorrentiniano della storia dell’ascesa di Berlusconi, con le feste della Milano da bere e l’atterraggio in elicottero a San Siro, la P2 e il lavoro di cantante da crociera. Ma sarebbero state necessarie un sacco di spiegazioni: più facile, quindi, è stato raccontarla appoggiandosi a un immaginario precostituito dell’Italia, e quindi limitarsi, nel racconto, a quelle parti che vi collimavano: Roma, la Sardegna. Al contrario che ne Il divo e ne Il caimano, ad esempio, Loro 1 è vaghissimo sul contenuto politico della vita di Berlusconi. Fa solo qualche allusione criptica al suo impero mediatico e nessuna a quello edile. Per comprenderlo è necessario sapere soltanto delle “feste eleganti”, che con ogni probabilità è tutto ciò che di lui sa il pubblico statunitense, o almeno quella parte di pubblico statunitense che andrebbe a vedere un film d’autore europeo.
IN CERTA MISURA è ovvio che il pubblico internazionale si aspetti dall’Italia certe cose (paesaggio pre-industriale, feste romane, Firenze) e non altre (innovazione biomedicale, speculazione edilizia, Chivasso); così come è ovvio che le richieste del mercato globale orientino la produzione del Paese, in fatto di automobili come di libri e film. Ma la narrativa migliore non si limita a esportare l’immagine di un Paese a beneficio dei forestieri: la crea, la complica, agli occhi stessi di chi ne è coinvolto, che vedendo un grande film o romanzo trova in esso una rivelazione su di sé. È qualcosa di più di una strategia di marketing – è, appunto, un’identità. Non si tratta solo di Sorrentino. Call me by your name, di Luca Guadagnino, si svolge in una campagna eterea, astoricizzata, nei dintorni di Crema, tutta colori caldi e paesani in bicicletta per i campi; Le otto montagne, il romanzo con cui Paolo Cognetti ha vinto il premio Strega e ottenuto successi in tutto il mondo, è incentrato sulla nostalgia e il fascino per l’aspra vita di montagna. Al di là dei loro meriti artistici (ho trovato banale il film di Guadagnino, potente il romanzo di Cognetti) si tratta in entrambi i casi di idealizzazioni. Nessuno, ad esempio, potrebbe intuire che il Paese di cui parlano (o il Paese dei fieri piccoli produttori di Eataly, o degli artigiani della pelletteria ritratti in bianco e nero nelle pubblicità della moda) è la settima economia mondiale. Nel suo libro precedente, Sofia veste sempre di nero, Cognetti ha offerto fra le altre cose un ritratto lancinante e straordinariamente preciso della vita nelle città-dormitorio dell’hinterland milanese. Al contrario di quelle, però, il Monte Rosa si vede passeggiando intorno al Lake Como.
Call me by your name, di Luca Guadagnino, si svolge in una campagna eterea nei dintorni di Crema: un caso di idealizzazione, nessuno potrebbe intuire che il Paese di cui parla è la settima economia mondiale