CULTO DELLA PERSONALITÀ
La città della Georgia dove il dittatore è nato e vissuto fino a 16 anni nel 2017 ha attirato 132mila visitatori da tutto il mondo. Il museo dedicato al “Piccolo padre dei popoli” tace però sul sistema di colonie penali che tra il 1934 e il 1947 causò la
Viaggio a Gori, la città georgiana dove è nato Iosif Stalin
ANCHE IN GEORGIA, COME IN ITALIA e altrove, il succedersi di culti diversi nel corso del tempo ha fatto sì che nuovi templi fossero costruiti sulle rovine di luoghi già impiegati da altre religioni per pregare, tra le stesse pareti o nelle vicinanze. L’affascinante cittàfortezza sulla collina di Upliscihe, per esempio, risale al primo millennio avanti Cristo e ha ospitato nelle sue caverne riti di fedi diverse: dai pagani ai cristiani. Una delle costruzioni più recenti è una basilica. La pietra porosa delle grotte è resistita ai decenni dell’ateismo di Stato imposto dall’Unione sovietica. Ma c’è un tipo di fede che nonostante lo scorrere tumultuoso degli anni tra XX e XXI secolo ha sedimentato su di sé stratificazioni meno massicce: il culto della personalità di Stalin, nome di battaglia di Iosif Vissarionovic Džugašvili, segretario generale del Partito comunista dell’Urss dal 1922 alla morte avvenuta nel 1953. A una dozzina di chilometri dall’altura di Upliscihe si trova Gori, la piccola città che guarda verso le montagne del Caucaso nella quale Stalin nacque nel
1879 e visse fino a 16 anni d’età. Lì è rimasta quasi intatta la casa nella quale il futuro «Piccolo padre dei popoli» abitò da bambino. È sovrastata da una copertura che la protegge dalle intemperie e la affianca un museo sul suo inquietante, e tragicamente famoso, ex abitante. L’anno scorso questi posti che santuari non sono e rischiano di esserlo sono stati visitati da 132mila persone. Dall’estero, il grosso è arrivato da Iran, Russia, India, Israele, Filippine. Non pochi i nostalgici. Tra i georgiani il pubblico si divide più o meno in due: anziani che rimpiangono il passato, giovani estranei al culto di Stalin.
SOTTO I LORO OCCHI SCORRONO pezzi di storia vera, romanzata o autentica soltanto nel tramandare falsità come era abitudine di tanta propaganda sovietica. La raccolta di poemi che il futuro dittatore scrisse mentre studiava in seminario e aveva una calligrafia ordinata. La foto segnaletica scattata dalla polizia politica zarista al giovane bolscevico di Gori
quando il detenuto aveva 22 anni, prima che venisse mandato in Siberia. Una mappa con il percorso di una delle sue evasioni. La porta della bottega al di sotto della casa nella quale si viene informati che lavorava da calzolaio il padre di Iosif, Vissarion.
COME RICORDA LILLY MARCOU nel libro Stalin – Vita privata, Editori Riuniti, sulla paternità autentica del successore di Lenin furono disseminati interrogativi: c’è chi affermò che Iosif era figlio di un prelato presso il quale era stata a servizio la madre, chi di un aristocratico, chi di un esploratore o di qualcun altro. Nessun dubbio invece su questo, al museo. Nel cortile- giardino, adulti e ragazzini salgono sul vagone verde di treno che il dittatore impiegava per i viaggi. «Compresi quelli per dirigersi alle conferenze di Teheran, Yalta e a Potsdam», dice la guida.
VICINO A UNA STANZA con i mobili di uno degli uffici del capo sovietico al Cremlino, il visitatore trova non soltanto la sesta copia della maschera mortuaria di Stalin prodotta dallo scultore Matvey Maniezer, esposta sotto una luce e nel mezzo di niente come il viso di un santo. Da quelle parti c’è una delle rare foto che il segretario del Pcus – in tempi nei quali l’espressione «photoshop» era ignota – non riuscì a
far ritoccare come le altre per levigare i buchi lasciati sul suo volto dal vaiolo, contratto a sei anni di età. Da particolari così si deduce che non tutto quanto appare è vero o veritiero del tutto. In un’immagine con alcuni notabili, la cancellazione non perfezionata di uno dei dirigenti del partito caduti in disgrazia lo conferma. In genere, in Urss facce e sagome di coloro che di volta in volta venivano giudicati reprobi svanivano come le cicatrici ai lati dei baffi di Stalin.
CHE A GORI LA CASETTA con dentro ricordi del dittatore diventasse visitabile fu deciso nel 1937. In quell’anno il successore di Lenin ordinava feroci
NEL 2010 AL MUSEO SONO STATE AGGIUNTE DUE STANZETTE. NELLA PRIMA, IL TAVOLO DEGLI INTEROGATORI, NELLA SECONDA, UNA CELLA
ondate di repressione. A guidare il partito in Georgia era Lavrentij Pavlovic Berjia, il quale era stato il presidente locale del Gru, il servizio di sicurezza in Italia più conosciuto come Ghepeù, sigla che sta per Gosudarstvennoe politiceskoe upravlenie, Direzione politica di Stato. Berjia era un altro georgiano, però di provenienza mingrelia, la famiglia di Stalin aveva origini ossete.
ESSERE COMUNISTI NON ERA un motivo di salvezza. Su 644 delegati che parteciparono al congresso del partito georgiano nel 1937, arrestati e fucilati furono 425. Stando alle statistiche ufficiali, nella terra che allora era una repubblica sovietica tra quell’anno e il gennaio 1938 le purghe falciarono quattromila comunisti con tessera o senza. Si ritiene che in realtà furono molti di più. Per calcolo politico forse Berjia avrebbe rinunciato a epurazioni così consistenti, tuttavia le guidò. Uno dei primi a cadere fu un celebre bolscevico, Budu Mdivani: benché amico di Stalin aveva contrastato un suo progetto di Federazione transcaucasica. Come ha riferito Amy Knight nell’eccellente biografia Berjia, ascesa e caduta del capo della polizia politica di Stalin, Mondadori, Midvani usava raccontare che i lavoratori georgiani avevano chiesto di formare un corpo di guardia per la casa della madre di Stalin a Tbilisi: «Non perché venisse protetta, ma per non rischiare che mettesse al mondo un altro Stalin». Fu fucilato.
TACE SU QUESTO IL MUSEO ATTUALE, aperto dal 1957, pur non nascondendo per intero l’esistenza del Gulag. A meno che non lo specifichi in punti quasi nascosti, non spiega che la rete era composta almeno tra il 1934 e il 1947 da 53 lager, 426 colonie penali, 50 campi per minorenni. Non risulta evidente al visitatore che la macchina statale della quale Stalin fu a capo causò la morte di circa venti milioni tra dissidenti, comunisti accusati di tradimento o deviazionismo, cittadini di minoranze etniche. Per ricordare come l’Urss non fosse un paradiso per il proletariato, dal 2010 sono state aggiunte al museo due stanzette. Piccole, in penombra, al pianterreno. Nella prima ci sono un tavolo come quelli che venivano utilizzati da terzetti di inquisitori stalinisti di partito per estorcere confessioni agli interrogati, verbali di interrogatorio. Nella seconda, la porta di una cella. Due modesti ossequi a martiri, alla fede nella libertà, dove altri venerano Stalin.
DA TBILISI, CAPITALE DELLA GEORGIA, Gori si raggiunge percorrendo un’autostrada che lambisce la Ossezia del Sud, territorio presidiato da truppe russe che sostengono i separatisti locali, non lontano da casette basse dai tetti bordeaux abitate dai profughi accolti dai georgiani dopo la guerra del 2008. Anche se in quei campi, verdi in primavera e gialli d’estate, passa una rete che rappresenta un confine ufficialmente non riconosciuto, con le tensioni del caso, il paesaggio è rilassante. Ed è così anche perché, mentre in Italia alcuni ritengono di moda sputare sull’Unione Europea, circa 200 osservatori di una missione chiamata European Union monitoring mission (Eumm) contribuiscono con la loro presenza a scoraggiare scontri armati. La Georgia, tornata indipendente nel 1991, ha firmato quattro anni fa un accordo di associazione con l’Ue e spera in futuro di entrarvi. La sua politica estera attuale è moderata. Con la Russia non ha relazioni diplomatiche, però persegue una linea definita di «pazienza strategica». Il suo primo ministro Giorgi Kvirikashvili e il ministro degli Esteri Mikhail Janelidze hanno ribadito di recente l’intenzione di aderire alla Nato. Perché qui dove continua a camminare la storia e molta della storia del ventesimo secolo ha origine, non tutti dimenticano gli orrori del passato. Fino ad avere pazienza anche verso chi fa meno di quanto dovrebbe per non farli dimenticare.
LE FACCE DI QUELLI CHE VENIVANO GIUDICATI COLPEVOLI SCOMPARIVANO DALLE FOTOGRAFIE