Corriere della Sera - Sette

SE LA CANTANO, SE LA SUONANO E SE LA DISEGNANO

- DI MA SSIMO C OTTO

I cavalli di Paolo Conte (come quello qui sopra). Le litografie di Paul McCartney. I quadri di Bob Dylan. Ecco l’arte firmata dai musicisti

Le litografie di Paul McCartney e le mani colorate di Ringo Starr, i cavalli di Paolo Conte e i ritratti melodici di Noemi. Un giornalist­a ha chiesto ad alcuni celebri musicisti di cimentarsi con la pittura e ha raccolto le loro opere in una mostra itinerante. Perché comporre canzoni, in fondo, non è diverso da dipingere

VOLENDO, SI PUÒ INIZIARE con qualche citazione. Prendere in prestito parole altrui è fine e non impegna, e quasi sempre ottiene il risultato di farti apparire intelligen­te, anche se poi è difficile essere all’altezza con parole tue. Sia quel che sia. Joan Miró, gran maestro surrealist­a, voleva che i suoi quadri fossero come una poesia messa in musica da un pittore. Francis Picabia, parigino eclettico amatissimo dagli americani, ambiva a esprimere in un quadro l’armonia musicale e i movimenti della danza. E Vasilij Kandinskij, fondatore dell’arte astratta, coltivava tra mille dubbi (segno distintivo dell’artista vero) una bella certezza: «Il colore è un tasto, l’occhio il martellett­o che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde». Insomma, da sempre esiste una connession­e fra musica e pittura (pensiamo anche alle forti analogie tra i dipinti degli Impression­isti e le composizio­ni al pianoforte di Claude Debussy). Io, qualche anno fa, ho provato ad andare oltre: cercare di far dipingere i musicisti, perché, in genere, chi sa tenere in mano uno strumento o un microfono è a suo agio anche con pennelli e matite. I musicisti amano le tele perché scrivere canzoni non è diverso da dipingere, è solo un altro modo per descrivere le immagini che girano in testa fino a quando te la fanno girare, ed è allora che devi trasformar­le in qualcosa che qualcuno chiama arte. Se una canzone è un film – pensiamo a quanti brani vivono di suggestion­i cinematich­e – allora un quadro è qualcosa di più di un fermo immagine, è il trailer di un suono, il punto fermo, la strofa più luminosa, il ritornello più chiaro. Quando chiedevano ad Augusto Daolio, il cantante dei Nomadi, se dipingesse per riempire un vuoto, lui sorrideva e correggeva: «Al contrario, io dipingo per svuotare un pieno». Perché ci sono molti modi per raccontare e raccontars­i. Nel 2010 ho così dato il via a Voci su tela – In My Secret Life, una mostra itinerante a fini benefici (in ogni

Chi sa tenere in mano uno strumento o un microfono in genere è a suo agio anche con pennelli e matite

città un ente diverso, stavolta i proventi andranno all’Associazio­ne CasaOz) che fino al 2 settembre fa tappa a Torino, nella splendida cornice di Palazzo Cavour, con allestimen­to a cura di Next Exhibition. Raccoglie 150 quadri di 100 artisti, che ho in gran parte commission­ato. Hanno accettato tutti con entusiasmo ed è un peccato non raccontare tutte le storie che si celano dietro a ogni quadro. Caparezza si è fatto portare tela, colori e pennello sul palco del Premio Tenco, poi ha interrotto il concerto e ha realizzato l’opera, che mi ha consegnato la sera stessa. Simone Cristicchi si è aggrappato ai suoi anni da fumettista allievo di Jacovitti, Paola Turci e Laura Pausini si sono date all’astratto, Carmen Consoli e Piero Pelù alla tecnica mista, Giorgia e Katia Ricciarell­i ai ritratti. Paolo Conte si è confrontat­o con una delle sue passioni, i cavalli (difficilis­simi da disegnare in movimento), Noemi ha dipinto la sorella, Andy dei Bluvertigo Marilyn Monroe, Arisa un paesaggio bucolico, Tiziano Ferro un supereroe al contrario. Drigo dei Negrita e Vittorio De Scalzi dei New Trolls hanno usato un tovagliolo al posto della tela, mentre Dario Fo ha preferito un cartone da pizza e Renato Zero un piatto di ceramica. E poi, ancora: Teresa De Sio ha lavorato al computer e poi stampato su plexiglass, Gigi D’Alessio ha disegnato un vicolo di Napoli e Vinicio Capossela le sue canzoni, perché lui deve fare così: ogni volta che finisce un testo, prima di cantarlo deve raffigurar­lo per visualizza­rlo meglio. Curiosa la storia di Patty Pravo. Active painting, definisce lei. E come lo dice Patty non lo dice nessuno. Un quadro nato nel suo attico romano. Bello, ma ancora più bello, giura lei, è quello che c’è sul retro, quello che aveva deciso di darmi. Poi, la notte prima di consegnarm­elo, ha sognato che se me l’avesse dato sarebbe morta. Così ne ha fatto un altro e ha tenuto l’originale sul retro, facendomi giurare che mai e poi mai avrei tolto la cornice per guardarlo, almeno fino a quando sarà lei in vita. Dunque fino all’eternità.

RED CANZIAN DEI POOH (perché così sarà chiamato fino alla fine dei tempi), prima mi ha dato un vecchio quadro del suo periodo naïf. Poi, un giorno, davanti a me, prende dei fogli e comincia a dipingere. Lascio asciugare il quadro, poi lo metto in una grande cartella di plastica che appoggio, stupidamen­te, vicino a una fonte di calore. Passa il tempo e sento odore di bruciato. Mi avvicino. Vedo che la lampadina ha bruciato la plastica della cartella, da cui esce fumo. Sbianco. Penso che il quadro si sia rovinato. La carta sta prendendo fuoco. Soffio, spengo. Alla fine, incredibil­mente, l’effetto è spettacola­re perché il buco assomiglia a un sole. Sembra fatto apposta. L’arte è

fatta anche di capitombol­i del caso. Come dicono gli arabi: maktoub, così è scritto. E poi, Giorgio Faletti. Si lasciava coinvolger­e sempre, un po’ perché curioso, un po’ per amicizia e un po’ perché aveva un talento smisurato. Nessuno ha avuto tante vite come lui: cabarettis­ta, comico, cantante, scrittore. Era anche un cuoco straordina­rio, tanto che molti chef stellati andavano a cena a casa sua per carpirne i segreti e inventare nuove ricette. Mancava la carriera di pittore. Un giorno, gli spiego la mia idea, poi chiudo: «Giorgio, mi devi fare un quadro». Risponde: «Volentieri, ma non so nemmeno come si inizia». E io: «Oh, è facile. Basta comprare una tela e dei colori, poi buttarli caso sulla tela e fare in modo che si veda l’unica cosa importante: la tua firma bella bella al fondo del quadro».

CI SONO ANCHE QUADRI dal mondo della radio (da Ringo a Mixo ad Andrea Rock), della danza (Carla Fracci), del cinema (Violante Placido e Alessandro Benvenuti), della television­e (Dario Ballantini e Vincenzo Mollica), del fumetto (Hugo Pratt, Milo Manara, Sergio Staino). A questi ho aggiunto qualche disegno di star internazio­nali. Una volta, quando le interviste duravano il tempo giusto e non pochi quarti d’ora come adesso, chiedevo ai musicisti non l’autografo, ma un disegno. Immagino che fosse un modo per sublimare la mia voglia di dipingere, attività per la quale sono totalmente negato. Ci sono quindi cinque disegni di Leonard Cohen fatti al computer con un pennello speciale e stampati su carta di riso a casa sua a Los Angeles, due meraviglie di Miles Davis, un autoritrat­to di Elvis Costello, uno schizzo di Moby, un lavoro di Sarah Jane Morris fatto in treno, uno degli Inti Illimani fatto in aereo e uno di Marky Ramone dei Ramones in camerino a Trieste. A completare il tutto, alcune litografie firmate a mano da Paul McCartney, Ringo Starr, Ron Wood degli Stones, Bob Dylan, Janis Joplin e Jimi Hendrix, che ho acquistato in giro per il mondo. Insomma, mi sono divertito. E si sono divertiti anche i musicisti. Che per una volta non hanno avuto paura di steccare. Male che vada, si trattava di stuccare.

Dj, storico del rock, conduce su Virgin Radio Buongiorno Dr. Feelgood e Mr. Cotto e Rock Bazar. Il suo nuovo libro è Rock Therapy (Marsilio).

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