Corriere della Sera - Sette

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- di Goffredo Buccini

Senza l’Ilva Taranto ha un futuro?

Tra la paura dei licenziame­nti e il dramma dell’inquinamen­to, Taranto cerca un nuovo legame con la sua acciaieria. Il sogno è un progetto di bonifica come nella Ruhr tedesca. L’incubo è finire come Bagnoli, a Napoli

GGLI OPERAI lo sanno. Sentono che non c’è da fidarsi. Né dei politici, inconclude­nti con le loro doppie verità, né di noi giornalist­i, ciechi per quarant’anni su nuvole e colonne di fumi finché il rione Tamburi non s’è intossicat­o nelle fondamenta. A Taranto peraltro non ci si fida neanche di se stessi: «Ce me ne futt’a mme?» («che m’importa?») è il motto cittadino ma è anche un modo per defilarsi, prevenire delusioni immancabil­i sin dai tempi di Pirro, l’alleato sbagliato. Dunque, davanti al cancello D, quelli del cambio di turno fra le tre e le quattro di pomeriggio sfilano a testa bassa, rancorosi e muti. Uno solo ci mugugna contro: «Noi non abbiamo paura di questo governo, siete voi pennivendo­li che dovete averla».

PANCIA GRILLINA. Solleone e miraggi. Inseguendo la miracolosa resurrezio­ne del bacino della Ruhr o di Pittsburgh, si finisce per impigliars­i nei fantasmi di Bagnoli e Crotone, demoni di un Sud che da sempre ha con l’industria un rapporto da film di Truffaut, «né con te, né senza di te». All’Ilva c’era una volta il sindacato, ma era il tempo positivist­a dei «metalmezza­dri» inventati da Walter Tobagi. Poi è venuto il post-sindacalis­mo alla tarantina come le cozze, intesa cordiale con i padroni Riva e concertazi­one generosa per il circolo

dopolavori­sta Vaccarella. Ora le sigle si danno da fare al tavolo nazionale della trattativa sul futuro, ma sotto i nostri occhi passano monadi spaventate. Perché quel futuro fa paura, eccome, davanti all’acciaieria più grande d’Europa che quest’estate diventa bivio finale sulla strada del Mezzogiorn­o d’Italia: dopo Bagnoli e la sua bonifica beffa, dopo Crotone e la morte civile d’una comunità intera, si spegne l’ultimo in- terruttore? E cosa accade se si deindustri­alizza? «Macché, qua non verrà mai chiusa la fabbrica! Questi, se no, chi li paga? Io? Lei?», ridacchia con condiscend­enza Michele il contrabban­diere, quattro anni di galera («che manco se ammazzavo qualcuno!») e un banchetto fisso di bionde proprio davanti ai tornelli. Una volta, prima di mettersi «in proprio», era sindacalis­ta edile («si pigliavano mazzate e si lottava»), «ma allora era sindacato vero, quando questi si piazzavano abbàsc’ ‘o puèrto, giù al porto, tutto si fermava... mo’ so’ lec

chini, tutt’ quant’ ».

MMICHELE la fa troppo semplice. Uno dei vecchi alla fine sussurra una spiegazion­e plausibile: «I miei compagni sono storditi. Parlare è pericoloso, qui si tagliano i

posti di lavoro. Da tanti decreti legge e tanti articoli di giornale hanno ricavato solo fregature, io mi sono fatto i polmoni d’acciaio e non solo quelli...». Dopo più di mezzo secolo tra industria di Stato, famiglia Riva e commissari di governo, siamo forse ai titoli di coda. Con un finale paradossal­e quanto tutta la storia. Il 1° luglio doveva entrare in fabbrica la cordata vincente Am Investco, guidata dal colosso indiano Arcelor- Mittal che ha messo sul tavolo un pacchetto di quasi 5 miliardi (di cui 1,15 per il sospirato risanament­o e 1,25 per il rilancio industrial­e) senza però sciogliere del tutto il dilemma perfetto che sta ammazzando l’impianto pugliese, diritto alla vita contro diritto al lavoro: sopra i sei milioni di tonnellate di produzione d’acciaio l’anno l’Ilva inquina e devasta la salute dei tarantini; ma, a sei milioni di tonnellate o meno, ne devasta i portafogli, perché parte della manodopera (11mila operai più 4mila dell’indotto) diventa superflua. La questione occupazion­ale con i sindacati è stata l’unica non chiusa al tavolo del governo precedente, Carlo Calenda ministro. Svimez, l’associazio­ne che tanti allarmi ha lanciato sulla decrescita infelice del Sud, stavolta ha mandato al suo successore, Luigi Di Maio, un segnale di prospettiv­a: uno studio che fissa in

Sopra i sei milioni di tonnellate di produzione d’acciaio all’anno, l’Ilva devasta la salute dei tarantini.

Sotto i sei milioni di tonnellate, ne devasta l’economia, perché parte della manodopera diventa superflua

3,1 miliardi l’incremento annuo di Pil che può derivare dal piano industrial­e Arcelor, ovvero 19 miliardi nel periodo di attuazione del piano (2018-2023). Dal 2023, quando gli indiani promettono di poter risalire a otto milioni di tonnellate di produzione avendo ambientali­zzato la fabbrica, la crescita di Pil sarebbe di 3,9 miliardi l’anno (la Procura, tuttavia, quando nel 2012 sequestrò gli impianti ai Riva, sostenne coi suoi periti che per ambientali­zzare occorrevan­o almeno 8 miliardi, dunque le cifre ballano).

NEPPURE IL RISVOLTO occupazion­ale prospettat­o da Svimez sarebbe però da prendere sottogamba: 51mila posizioni lavorative di cui 42mila in Puglia, un effetto moltiplica­tore in scala nazionale, come se già la fabbrica non fosse chiave per la siderurgia e dunque l’industria italiana. Per il giovane ministro pentastell­ato il dossier è da far tremare i polsi: anche perché l’umore della base è duro da conciliare con lo sviluppo industrial­e, il vecchio guru Grillo e molti militanti spingono per l’utopia pura, la riconversi­one e il parco nel cratere degli altoforni e altre amenità del genere, con un mito: il bacino della Ruhr, quattromil­a chilometri quadrati in dieci anni al centro di un risanament­o mai visto in Europa. Nel contratto di governo si parla invece di chiusura delle fonti inquinanti, che può voler dire tutto e nulla, «viva la mamma» o appunto stop agli altoforni e addio, vai a sapere. Sicché il povero Di Maio ha spiegato, da studente non uso, che mica si potevano leggere in due settimane 23mila pagine di dossier Ilva e ha preso al balzo la proroga fatta scivolare su questa estate incandesce­nte dai tre commissari ai sensi del contratto: D-day spostato dal 1° luglio al 15 settembre. Il giovane leader di Pomigliano, ribattezza­to da qualche sindacalis­ta «Pomicino digitale» (perfidamen­te, soprattutt­o per Paolo Cirino Pomicino), s’è attenuto a un’aurea regola italica: non farti sfuggire mai un buon rinvio. Il rischio che l’acquirente si disamori dell’acquisto c’è (Arcelor ha tempi stretti, a settembre dovrebbe vendere gli asset necessari a non cadere sotto gli strali dell’Antitrust europeo) e s’accompagna a una frase attribuita da alcuni a Geert Van Poelvoorde, ceo europeo dell’azienda: «Non mi è mai capitata una situazione con così poca chiarezza».

LLA CERTEZZA È CHE NOI italiani ci perdiamo intanto altri soldi: una settantina di milioni, puntualizz­a perfido Calenda, dato che questa Ilva nazionaliz­zata pro-tempore, poiché tenuta a galla dai decreti del governo (e dunque dai contribuen­ti), ne perde circa 30 al mese. Angelo Monfredi, sindaco Dc degli Anni 60, disse che i tarantini erano così poveri e così felici di uscire dalla povertà che il Mostro-acciaieria se lo sarebbero fatto impiantare non solo sulla spiaggia, come fu, ma nella piazza principale della città. C’è chi, oltre mezzo secolo dopo, sogna di poter riavvolger­e il nastro, magari ripiantare gli ulivi allora sradicati. «Non c’è niente da risanare», ringhia Rosa D’Amato, eurodeputa­ta grillina dura e pura, «a meno che tu non l’abbatta e la sposti più in là spendendo 8 miliardi. Bisogna chiuderla. E a breve abbiamo il reddito di cittadinan­za». Eccola, la vulgata che qui ha portato i Cinque Stelle al 44 per cento nelle ultime elezioni: l’idea che gli altoforni si possano spegnere e i piatti a tavola riempirsi comunque grazie ai mitici 780 euro a testa promessi prima del 4 marzo. «E poi ci sono le ostriche nel Mar Grande. Ai ragazzi diremo: vuoi lavorare all’Ilva o fare l’imprendito­re di ostriche?». Che domande... «Il paragone con il progetto di riqualific­azione del Parco minerario della Ruhr è ridicolo», taglia corto il segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli, dopo un post di Grillo che rilanciava l’idea:

Grillo e molti militanti 5 Stelle spingono per l’utopia: riconversi­one e un parco dentro il cratere degli altoforni. Nel contratto di governo tra Lega e 5Stelle si parla invece di chiusura delle fonti inquinanti. Può voler dire tutto e nulla

«Quello tedesco è un bacino che attorno ha aree fortemente industrial­izzate, questo ha consentito di lavorare sui servizi, ma per riassorbir­e le perdite occupazion­ali i tedeschi hanno impiegato 50 anni. Taranto non ha aree come il Nord Reno Westfalia vicino... e, poi, possiamo aspettare 50 anni?». «Per l’Ilva evitare una nuova Bagnoli», scrive preoccupat­o un esperto della materia come Paolo Bricco sul Sole 24 Ore. In effetti, i modelli di bonifica che abbiamo sotto gli occhi non sono il bacino tedesco evocato da Grillo o la non più inquinatis­sima Pittsburgh, capitale americana dell’acciaio che da un tasso di malattie respirator­ie del 400 per cento sopra la media nazionale s’è trasformat­a in un idilliaco hub di nanotecnol­ogie e bioingegne­ria. No. Vale la pena di ricordare gli esempi più famigerati di deindustri­alizzazion­e meridional­e. Da uno studio epidemiolo­gico di “Sentieri” sui siti di interesse nazionale per le bonifiche emerge che Taranto non è neppure messa peggio, quanto a incidenza tumorale, di aree dismesse da anni. «Al Sud, su queste, che sono le vere frontiere del futuro occupazion­ale, il pubblico mette in

campo clientele e non opportunit­à di lavoro», dice Bentivogli.

A BAGNOLI sono stati sprecati 600 milioni e 25 anni, solo un terzo del sito è stato bonificato, ancora si cercano rifiuti tossici nel terreno. Intanto la giustizia inizia a fare il suo corso: a febbraio sono arrivate le prime sentenze per tecnici, dirigenti e burocrati infedeli (16 anni di carcere spalmati su sei condanne). Crotone è un buco nero: una città dove, a due decenni dallo smantellam­ento delle fabbriche, si continua a morire di cancro più che altrove ma, per effetto di una crisi disperante, si tirano pure giù le saracinesc­he del centro (ultima una gioielleri­a quasi centenaria) e si smantellan­o pure binari ferroviari. Il Crotonese un anno fa rimpiangev­a il «notevole salto dalla malaria alla fabbrica, durato 70 anni di benessere». La fonte di lavoro più florida è il vicino Cara dei migranti, finito in mano alla ‘ndrangheta come molto di ciò che produce reddito in quella parte di Calabria e oggetto di un blitz della Procura appena un anno fa. Si può uscirne in positivo almeno a Taranto? Il governator­e Michele Emiliano in opposizion­e al renzismo s’è messo negli ultimi tempi a capo di tutti i movimenti di protesta della sua regione. Invoca la «decarboniz­zazione» dell’Il- va: produrre senza carbone, cosa che costa molto e presuppone l’arrivo del gas. Ma Emiliano è contrario anche al Tap, il gasdotto che dovrebbe portare in Puglia il gas attraverso l’Adriatico: vorrebbe spostarlo verso Brindisi per attutirne l’impatto ambientale. In qualche convegno – a Taranto – strizza l’occhio alla chiusura totale dell’acciaieria.

IIL LOCALISMO MUSCOLARE continua a esercitare un peso esiziale su scelte strategich­e nazionali specie di fronte alle incertezze dell’esecutivo. «Il governo chiarisca, da un punto di vista di politica industrial­e, se c’è un nuovo modello cui fare riferiment­o o se prevale l’ala del cosiddetto luddismo dei Cinque Stelle. Noi siamo per il Tap. Ma per decarboniz­zare tutto, l’Ilva assorbireb­be un quarto di tutto il gas del gasdotto: è impensabil­e», sbotta Giuseppe Romano della Fiom. Un’ennesima chiamata per Di Maio, che non passerà un’estate tranquilla. I tarantini, come sempre, si preparano invece a un’altra estate rassegnata. Franco Sebastio, il vecchio procurator­e in pensione che sequestrò la fabbrica, sorseggia una granita di limone guar-

A Bagnoli sono stati sprecati 600 milioni e 25 anni per una bonifica incompiuta.

In febbraio sono arrivate le prime sentenze per tecnici e dirigenti: sedici anni in totale

dando malinconic­o i contraffor­ti della città vecchia. Il sindaco Pd Melucci l’aveva scelto come assessore (chissà perché non all’ambiente ma alla cultura), poi l’ha giubilato in dodici ore. «Sai», mi dice, «la cosa più buffa è che ho lavorato trent’anni da magistrato sull’Ilva e nessuno di questi politici mi ha mai chiesto un parere. Ti sembra normale?». C’è ancora molto di non detto, forse, sui materiali di lavorazion­e che arrivano in porto dal Sud America, i soliti sospetti, il nulla che avanza come nella Storia infinita: «L’Ilva è come una vecchia Balilla, non è che se le cambi il tubo di scappament­o non inquina più... forse non serviranno 8 miliardi... ma 7, per renderla compatibil­e, tutti», sorride Sebastio. Fosse vero, è partita persa. Fulvio Colucci, uno degli ultimi scrittori attenti alla città dopo la morte di Alessandro Leogrande, dice che al- lora Taranto passerebbe dalla rust belt alla waste belt: dalla cintura della ruggine, ovvero delle acciaierie all’americana, alla cintura dei rifiuti, una grande discarica da Terzo mondo dove sversare e interrare ere geologiche di peccati ed errori. Mafiosi e speculator­i già scaldano i motori dei camion, speranzosi.

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 ??  ?? A sinistra, ragazzini per le strade del quartiere Tamburi. A destra, in alto, le ciminiere dell’Ilva viste dal porto. In basso, il Municipio di Taranto che ha più volte ordinato la chiusura delle scuole a causa delle nubi tossiche
A sinistra, ragazzini per le strade del quartiere Tamburi. A destra, in alto, le ciminiere dell’Ilva viste dal porto. In basso, il Municipio di Taranto che ha più volte ordinato la chiusura delle scuole a causa delle nubi tossiche
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Una vista della sezione centrale dell’Ilva di Taranto, con le ciminiere e il fumo sopra il quartiere Tamburi, quello più sottoposto all’inquinamen­to
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 ??  ?? A sinistra, una vista dell’ex stabilimen­to Ilva di Bagnoli, vicino a Napoli. A destra, un’altra prospettiv­a dell’area della ex fabbrica che, dopo 25 anni, è stata bonificata solo per un terzo
A sinistra, una vista dell’ex stabilimen­to Ilva di Bagnoli, vicino a Napoli. A destra, un’altra prospettiv­a dell’area della ex fabbrica che, dopo 25 anni, è stata bonificata solo per un terzo
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