Un buon governo produce speranza
La paura ha preso il potere, serve un antidoto
La criminalità diminuisce, la corruzione è meno diffusa di quanto la percepiamo. Il numero degli immigrati è inferiore rispetto ad altri Paesi. Reale è invece l’incertezza sul futuro. La colpa? Della rivoluzione digitale e tecnologica, non tanto della globalizzazione. Che fare? Dobbiamo riscoprire sentimenti positivi collettivi
È TROPPO PRESTO PER GIUDICARE il nuovo governo in base a programmi e politiche. Non lo è per valutarlo secondo un altro criterio, quello dei sentimenti da esso suscitati o coltivati. Il «contratto del governo del cambiamento» e poi l’azione di governo sono ispirati da un sentimento ricorrente, quello della paura. Nel «contratto» si propone di installare videocamere nelle aule scolastiche, di lottare contro la criminalità e la corruzione, di aumentare le risorse destinate a forze armate e a forze dell’ordine. L’azione di governo è mossa dalla xenofobia, dal rispristino del confine (chiudiamo i porti), dal timore dello straniero (l’immigrato). Nessuno dei dati oggettivi, di ordine statistico, dà ragione a questi timori. La criminalità è in diminuzione, non in aumento. La corruzione reale è infinitamente più bassa di quella percepita (questa è alimentata principalmente dal successo del contrasto della corruzione). Il numero di immigrati in rapporto alla popolazione non dovrebbe suscitare preoccupazione (in Italia ne abbiamo meno che in altri Paesi europei). Le chiusure nazionalistiche e l’enfatizzazione dei confini sono addirittura in contrasto con gli interessi nazionali di un Paese tutto proiettato sulle esportazioni e sull’accoglienza del turismo straniero. Se vi sono sentimenti spontanei nella popolazione, anch’essi di timore, questi sono ispirati da altri fenomeni. Un sentimento di aver dato più di quello che si è ricevuto, di essere in credito verso la propria comunità, che suscita rancore più che paura. Un sentimento indirizzato malamente contro quella che viene genericamente chiamata globalizzazione, e che ha invece il suo fondamento nelle enormi trasformazioni tecnologiche che stiamo attraversando, che hanno
modificato radicalmente alcuni lavori, fatto scomparire altri, provocato l’obsolescenza di altri ancora, prodotto la fine delle grandi manifatture (gli stabilimenti industriali) e che suscita incertezza sul proprio futuro per la perdita delle basi produttive. Il sentimento diffuso di uno squilibrio tra la partita del dare e quella dell’avere si è riprodotto anche a livello collettivo, con le motivazioni date ai due referendum regionali, quello lombardo e quello veneto, diretti ad ottenere maggiori compiti e risorse per le regioni. Questi sentimenti spontanei sono però come un malessere di cui chi lo percepisce non conosce le cause, e che proprio per questo suscita maggiori timori.
LE NUOVE FORZE di governo, dunque, agitano paure che non hanno proprio fondamento, ma fanno presa su altre incertezze e rancori, questi sì reali. Potrebbe la politica alimentare altri sentimenti, che conducano in altre direzioni, meno preoccupanti? Formulo questa domanda ben consapevole che – come ha osservato uno dei più critici scienziati politici inglesi, Michael Oakeshott – la politica si alimenta di oscurità, confusione, eccessi, compromessi, disonestà, pietà bugiarda, moralismo e immoralità, corruzione, intrigo, negligenza, invadenza, vanità, autoinganno e futilità. La politica, se non altro per giustificare le proprie azioni, presenta al Paese governato una narrazione di sé stesso, lo rispecchia in uno specchio deformante. Ed allora è ragionevole chiedersi se il racconto dell’Italia che le forze di governo, con enfasi diverse, presentano agli italiani, non possa cambiare. Berlusconi, dopo la grande crisi collettiva degli anni 1992–’93, in parte reale, in parte «teatrale», aveva puntato tutto sull’ottimismo. Il suo messaggio era quello di Guizot: «enrichissezvous». Una rappresentazione che lui chiamava liberale, ma che era fondata principalmente sull’arbitrio individuale e sull’arretramento del governo (i suoi furono anni di «non-governo», intendendo questa espressione nel senso migliore). Renzi continuò nello stesso tono, cercando di suscitare aspettative di progresso. C’è da chiedersi, ora, se il governo non possa piegare quell’insicurezza di cui ho detto nella direzione della speranza. Perché alimentare speranze è meglio di alimentare paure? Non è necessario aver letto quel gran libro sugli anni di svolta del primo e del secondo dopoguerra che è Il mondo di ieri di Stefan Zweig per comprendere che questi sentimenti collettivi (quelli spontanei e quelli inventati o suscitati dai vertici politici) hanno dentro di sé politiche diverse. Le paure promuovono Stati forti, autorità, chiusure. Le speranze Stati miti, egemonia, aperture.
Sabino Cassese Giudice emerito della Corte costituzionale e professore della School of Government della Luiss