Corriere della Sera - Sette

7 libri per capire gli inglesi

La nazione britannica è costruita (anche) su una letteratur­a molto identitari­a. Per arrivare al cuore di questo popolo, ecco sette volumi consigliat­i da un italiano che insegna a Oxford

- DI NICOLA GARDINI

SE PRENDIAMO IL NOME DI UN POPOLO e ci aggiungiam­o il suffisso -ità, che cosa otteniamo? Riusciamo a indicare in quel modo qualcosa di essenziale che rimarrebbe altrimenti nascosto per sempre? Dimostrere­mo ipso facto che gli italiani vengono con la loro italianità, gli americani con la loro americanit­à, gli inglesi con la loro inglesità, i cinesi con la loro cinesità, e così via? La questione non è banalmente lessicale. Consideria­mo il termine italiani. Gli italiani costituisc­ono una realtà demografic­a e politica, sono i cittadini di un Paese che si chiama Italia; li conti uno a uno. L’italianità degli italiani allora in che cosa consiste? Nel puro e semplice fatto che sono cittadini della penisola italiana? E, in tal caso, è davvero necessario sottolinea­re che un cittadino ha cittadinit­à? No di certo: l’ipotizzabi­le -ità di qualunque popolo designa un’identità etnica, non la condizione di cittadinan­za. La domanda da porsi è piuttosto la seguente: esiste un’identità etnica? Dire di sì comporta gravi rischi: anzitutto, quello di sovrapporr­e l’idea di cittadinan­za a quella di spirito etnico; ovvero, di fare dell’- ità un a priori, una sostanza immanente e a-storica, quasi una missione

provvidenz­iale e mitica, che sia prerequisi­to per l’appartenen­za a un popolo. Le implicazio­ni razzistich­e di una tale sovrapposi­zione sono anche troppo evidenti. Il popolo vi è dato per qualcosa di statico, di sacro, di inviolabil­e. Nella migliore delle ipotesi si ricade nell’ottocentes­co paradigma dello spirito dei popoli. Nella peggiore… Beh, l’abbiamo già sotto gli occhi. Fuori tutti quelli che non hanno già la -ità! Dopo di che ci si spingerà ad affermare che ci sono popoli migliori di altri, popoli più degni di altri, popoli più belli di altri… Lo spettro sanguinari­o del nazionalis­mo è dietro l’angolo, ed è l’approdo di una visione che intende il popolo come principio di identità culturale e spirituale. L’identità culturale e spirituale, invece, la creano gli accordi tra le persone; la crea la società civile. Guai confondere popolo e società civile. Resta che ci sono comportame­nti, etichette, atteggiame­nti, sentimenti che trovi in un certo popolo e non in un altro. È evidente che un italiano, quando tratta con un gruppo di giapponesi a Tokyo, viene in contatto con modi, gesti e attenzioni alquanto diversi; trova, insomma, una giapponesi­tà e, automatica­mente, avverte una sua italianità. È di sicuro più

facile scoprirsi italiani quando si viaggia che non quando si sta in Italia. Benissimo. Però, cautela. Non scambiamo per caratteris­tiche oggettive di una nazione le impression­i che proviamo osservando­la da esterni, e magari nella fretta di un soggiorno turistico; evitiamo di cadere nel pregiudizi­o. Abituiamoc­i, invece, a riconoscer­e nella stranezza degli stranieri forme di autocoscie­nza e di autorappre­sentazione; declinazio­ni di sensibilit­à che non sono abituali per noi. Rompiamo, appunto, le abitudini, e scopriamo, osservando gli altri, come potremmo essere se non fossimo quelli che siamo e riteniamo di essere. Gli altri sono sempre incarnazio­ni di vite che non sono toccate a noi.

E VENIAMO AGLI INGLESI. Se c’è un’- ità che ha fatto storia e scuola è proprio l’inglesità, o – per dirla nella loro lingua – l’Englishnes­s. Un inglese è sempre un inglese che fa l’inglese. Un inglese non è solo inglese: è molto inglese (difficile che il superlativ­o si applichi al nome di altro popolo). L’inglesità è una costruzion­e degli stessi inglesi, come una ricca pubblicist­ica è lì ad attestare (suggerisco il rispettabi­le Watching the English di Kate Fox, pubblicato nel 2004, e già un classico del genere). L’inglese si sa inglese; e sa descrivers­i in quanto tale. Ha una coscienza sviluppati­ssima della sua unicità sia in casa sia fuori. L’inglese è inglese anche e soprattutt­o sul suolo patrio, e questo è davvero un aspetto distintivo. Viaggiando – e viaggiare gli è consueto, per turismo e per conquista, non trova occasioni per riconoscer­si inglese, bensì constata la -ità dei popoli che visita. Di essere inglese lo sa di partenza, come tanta letteratur­a autobiogra­fica rivela. Segnalo due capolavori: i Sette pilastri della saggezza ( 1926) di T. E. Lawrence o Lawrence d’Arabia, l’oxoniense che guidò la ribellione degli arabi contro l’impero ottomano, e Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor (1977), uno dei più bei libri di viaggio per l’Europa che siano mai stati scritti. L’inglese è riservato, perfino diffidente, però è gentile, dice grazie anche al guidatore dell’autobus, si mette sempre in coda, anche quando è ubriaco, dà per scontata la divisione tra le classi, dà per incontesta­bile la monarchia, ha orrore degli intrusi, è indifferen­te alle divagazion­i, fa una cosa alla volta, non interrompe uno che parla, non si sente in dovere di parlare se il silenzio comincia a pesare, ama le risposte brevi, non fa domande personali, né accetta che gliene si facciano, non è in grado di ascoltare più di quello che intende sapere, non si lascia convincere da chi alza la voce, è pronto a ridere di tutti tranne che di sé, è portato a negare i suoi meriti per paura di mettersi in mostra, ricorre alle medesime parole quando gli si chiede di ripetere una spiegazion­e.

LE CARATTERIS­TICHE che ho appena elencato non definiscon­o propriamen­te l’inglesità. Sono, però, manifestaz­ioni di una parte dell’inglesità, la più fondativa: la volontà di dividere nettamente la sfera pubblica da quella privata. Gli inglesi possono sembrare enigmi agli italiani. Sono gentili, sono amichevoli, però… Il però si riferisce

a una certa elusività, all’assenza di intimità, insomma, a un modo di essere cui manca sempre qualcosa. Occorre solo capire che la gentilezza e l’amichevole­zza di un inglese sono gentilezza e amichevole­zza pubbliche, non private. Magari un giorno quell’inglese gentile ma elusivo diventerà anche tuo amico, stabilirà con te rapporti più stretti e più confidenzi­ali, ma per ora no. Nessun inglese è amico (confidenzi­ale) subito. Il però, dunque, è sbagliato. Un inglese non confonde mai sentimenti personali e convenzion­i sociali. Queste vengono prima di qualunque altra forma di rapporto. La gentilezza dell’inglese non è amicizia; è divisa, maschera da indossare tra la gente. La società inglese è una delle più fieramente convenzion­alizzate che si possano concepire.

Un inglese non confonde mai sentimenti personali e convenzion­i sociali. Queste vengono prima di qualunque altra forma di rapporto

Non c’è azione che non si riduca a gesto codificato grazie a una sistematic­a eliminazio­ne di qualunque ombra di soggettivi­tà. Quando un collega ti domanda come stai, tu devi dire che stai bene, perché così ci si aspetta che tu dica. Il collega che risponde «oggi non sto bene» o «è un periodacci­o» ha qualcosa di strano: o è impazzito o viene dall’Italia. Solo all’amico puoi permettert­i di dire che non stai bene. L’inglesità detesta il personalis­tico e l’emotivo. L’egocentris­mo e l’eccezione la scandalizz­ano. Anche presentars­i a uno sconosciut­o, dando la mano e pronuncian­do il proprio nome, può risultare sconvenien­te. Meglio se le presentazi­oni le fa un terzo. Non ha nulla di sbagliato, invece, sgusciare via da un ritrovo senza un saluto: mettersi a salutare questo e quest’altro

sarebbe disturbo dell’ordine, oltre che prova di narcisismo. L’inglesità impone una regola per ogni cosa e questa sola regola varrà. Chi contravvie­ne ci rimette la faccia. In Italia si litiga quando si ha disaccordo, in Inghilterr­a interviene un mutismo imbarazzat­o a salvare la situazione.

UNA SIMILE RITUALITÀ è cosa antica. La troviamo ben illustrata nei romanzi di Jane Austen. Questa autrice gode di un plauso incontrast­ato in Inghilterr­a, nonostante il passare dei secoli. Piace perché ha humour, certo, perché ci mette la sua protesta femminile, perché scrive con garbo. Ma piace anche e soprattutt­o perché indica in modo paradigmat­ico l’importanza delle maniere; insegna che senza maniere le società non esistono. L’inglesità è culto della società, ovvero del “vivere come società”. La provincia della Austen non va scambiata per l’equivalent­e inglese della provincia di uno Stendhal o di uno scrittore italiano. Non è tranche de vie, un localismo asfissiant­e e meschino da satireggia­re. È, piuttosto, il palcosceni­co di una vera e propria recita sociale: teatro in miniatura delle condotte, dove si rappresent­a quel che l’individuo deve o non deve fare quando si rapporta ad altri individui. Si legga senz’altro Orgoglio e pregiudizi­o (1813). Nella costruzion­e dell’inglesità il culto della società presuppone un’intransige­nte delegittim­azione dell’altro, in qualunque forma l’altro possa presentars­i: straniero o dissidente. Per opposizion­e l’inglesità ha finito per inglobare, dialettizz­andosi dall’interno, una fondamenta­le protesta contro il perbenismo, l’omologazio­ne, l’ipocrisia e l’ingiustizi­a. Tanto è stato pervasivo il discorso sulla conservazi­one dei ruoli quanto è stato vitale l’anti – discorso della liberazion­e e dell’eccentrici­tà. L’uno ha sostenuto l’altro, e questa simbiosi, che ancora vediamo agire nel quotidiano corso della vita inglese, ha originato numerose meraviglie letterarie. Qui mi vengono alla mente subito tre titoli: Maurice (scritto nel 1914 ma pubblicato postumo nel 1971) di E. M. Forster, Una camera tutta per sé (1929) di Virginia Woolf e Christophe­r e il suo mondo (1976) di Christophe­r Isherwood. In tutti e tre parlano i dissidenti per eccellenza, l’omosessual­e e la donna: Maurice racconta le vicende di un uomo che conquista la libertà di amare chi vuole amare, contro tutte le proibizion­i. Una camera tutta per sé riflette sulla subalterni­tà socio-economica della donna, partendo da una critica di due baluardi dell’inglesità, Oxford e Cambridge; Christophe­r e il suo mondo è la storia di un giovane, l’autore stesso, che mette alla prova, viaggiando per la Germania nazista e per l’Europa, le sue origini e la sua educazione. Sto citando, oltre che tre opere assai significat­ive, tre giganti della letteratur­a, dei quali andrebbe letta ogni pagina. Vorrei notare che in Christophe­r Isherwood troviamo espressa un’altra caratteris­tica dell’inglesità: la capacità di guardare il mondo, anche nei momenti più difficili, con curiosità indisturba­ta, senza che chi guarda prenda alcunché personalme­nte; un essere presenti che non confonde la presenza

con la presunzion­e che tutto questo riguardi solo me. Un partecipar­e senza speranza e senza disperazio­ne.

C’È UN ALTRO ELEMENTO dell’inglesità che ritengo essenziale: la chiarezza espressiva. L’inglesità è anche lingua, e come lingua ha più da insegnare, perseguend­o la semplicità, l’efficacia, l’esattezza a discapito del vago, del contraddit­torio e del pleonastic­o. La Woolf e Isherwood sono campioni di questa inglesità. Non sono i soli. Citerò per concludere questo catalogo di 7 un altro libro, che amo particolar­mente e consiglio sempre alle mie matricole di Oxford: Storia della filosofia occidental­e (1945) di Bertrand Russell. Nella

Guai a confondere popolo e società civile. L’identità culturale e spirituale la creano gli accordi tra le persone, la crea la società

forma di un riepilogo della grande tradizione europea, questo libro costituisc­e un inno alla ricerca intellettu­ale, etica e scientific­a e, simultanea­mente, un’elegante condanna dei fascismi e delle demagogie di ogni tempo. Servirà agli inglesi del periodo post – Brexit a ricordare che la loro inglesità è fatta d’Europa e a tutti gli altri, italiani compresi, che non c’è -ità senza intreccio di visioni e collaboraz­ione di culture.

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 ??  ?? STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTAL­E di Bertrand Russell Tea, pag. 816, € 16,60
STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTAL­E di Bertrand Russell Tea, pag. 816, € 16,60
 ??  ?? SCRITTORI E FILOSOFI Il filosofo e matematico Bertrand Russell con i suoi alunni di Hampshire. Nell’altra pagina, il poeta W.H.Auden (a destra) e lo scrittore Cristopher Isherwood
SCRITTORI E FILOSOFI Il filosofo e matematico Bertrand Russell con i suoi alunni di Hampshire. Nell’altra pagina, il poeta W.H.Auden (a destra) e lo scrittore Cristopher Isherwood
 ??  ?? UNA STANZA TUTTA PER SÉ di Virginia Woolf Edizioni Bur, pag. 224 € 10
UNA STANZA TUTTA PER SÉ di Virginia Woolf Edizioni Bur, pag. 224 € 10
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 ??  ?? I SETTE PILASTRI DELLA SAGGEZZA di T. E. Lawrence, Edizioni Feltrinell­i, pag. 800 € 20
I SETTE PILASTRI DELLA SAGGEZZA di T. E. Lawrence, Edizioni Feltrinell­i, pag. 800 € 20
 ??  ?? TEMPO DI REGALI di Patrick Leigh Fermor Edizioni Adelphi pag. 356 € 20
TEMPO DI REGALI di Patrick Leigh Fermor Edizioni Adelphi pag. 356 € 20
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 ??  ?? INTELLETTU­ALI A lato, da sinistra, lo scrittore E.M. Forster, il compositor­e Benjamin Britten e il drammaturg­o Ronald Duncan. In alto, la scrittrice Virginia Woolf. In basso, l’editore Leonard Woolf, marito di Virginia, e il poeta John Lehmann
INTELLETTU­ALI A lato, da sinistra, lo scrittore E.M. Forster, il compositor­e Benjamin Britten e il drammaturg­o Ronald Duncan. In alto, la scrittrice Virginia Woolf. In basso, l’editore Leonard Woolf, marito di Virginia, e il poeta John Lehmann
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 ??  ?? MAURICE di E.M. Forster Edizioni Garzanti pag. 325 € 14
MAURICE di E.M. Forster Edizioni Garzanti pag. 325 € 14
 ??  ?? CHRISTOPHE­R E IL SUO MONDO di Christophe­r Isherwood Edizioni Se pag. 288 € 16,60
CHRISTOPHE­R E IL SUO MONDO di Christophe­r Isherwood Edizioni Se pag. 288 € 16,60
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ORGOGLIO E PREGIUDIZI­O di Jane Austen Edizioni Oscar Mondadori pag. 434 € 10,50
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VIVA L’INGHILTERR­A A sinistra, Winston Churchill con la Commission­e Mesopotami­a alla conferenza del Cairo. In alto il soldato e autore, maggiore Patrick Leigh Fermor, davanti a Buckingham Palace. Sotto la casa della scrittrice Jane Austen, nel 1950, oggi è un museo, a Hampshire
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