7 libri per capire gli inglesi
La nazione britannica è costruita (anche) su una letteratura molto identitaria. Per arrivare al cuore di questo popolo, ecco sette volumi consigliati da un italiano che insegna a Oxford
SE PRENDIAMO IL NOME DI UN POPOLO e ci aggiungiamo il suffisso -ità, che cosa otteniamo? Riusciamo a indicare in quel modo qualcosa di essenziale che rimarrebbe altrimenti nascosto per sempre? Dimostreremo ipso facto che gli italiani vengono con la loro italianità, gli americani con la loro americanità, gli inglesi con la loro inglesità, i cinesi con la loro cinesità, e così via? La questione non è banalmente lessicale. Consideriamo il termine italiani. Gli italiani costituiscono una realtà demografica e politica, sono i cittadini di un Paese che si chiama Italia; li conti uno a uno. L’italianità degli italiani allora in che cosa consiste? Nel puro e semplice fatto che sono cittadini della penisola italiana? E, in tal caso, è davvero necessario sottolineare che un cittadino ha cittadinità? No di certo: l’ipotizzabile -ità di qualunque popolo designa un’identità etnica, non la condizione di cittadinanza. La domanda da porsi è piuttosto la seguente: esiste un’identità etnica? Dire di sì comporta gravi rischi: anzitutto, quello di sovrapporre l’idea di cittadinanza a quella di spirito etnico; ovvero, di fare dell’- ità un a priori, una sostanza immanente e a-storica, quasi una missione
provvidenziale e mitica, che sia prerequisito per l’appartenenza a un popolo. Le implicazioni razzistiche di una tale sovrapposizione sono anche troppo evidenti. Il popolo vi è dato per qualcosa di statico, di sacro, di inviolabile. Nella migliore delle ipotesi si ricade nell’ottocentesco paradigma dello spirito dei popoli. Nella peggiore… Beh, l’abbiamo già sotto gli occhi. Fuori tutti quelli che non hanno già la -ità! Dopo di che ci si spingerà ad affermare che ci sono popoli migliori di altri, popoli più degni di altri, popoli più belli di altri… Lo spettro sanguinario del nazionalismo è dietro l’angolo, ed è l’approdo di una visione che intende il popolo come principio di identità culturale e spirituale. L’identità culturale e spirituale, invece, la creano gli accordi tra le persone; la crea la società civile. Guai confondere popolo e società civile. Resta che ci sono comportamenti, etichette, atteggiamenti, sentimenti che trovi in un certo popolo e non in un altro. È evidente che un italiano, quando tratta con un gruppo di giapponesi a Tokyo, viene in contatto con modi, gesti e attenzioni alquanto diversi; trova, insomma, una giapponesità e, automaticamente, avverte una sua italianità. È di sicuro più
facile scoprirsi italiani quando si viaggia che non quando si sta in Italia. Benissimo. Però, cautela. Non scambiamo per caratteristiche oggettive di una nazione le impressioni che proviamo osservandola da esterni, e magari nella fretta di un soggiorno turistico; evitiamo di cadere nel pregiudizio. Abituiamoci, invece, a riconoscere nella stranezza degli stranieri forme di autocoscienza e di autorappresentazione; declinazioni di sensibilità che non sono abituali per noi. Rompiamo, appunto, le abitudini, e scopriamo, osservando gli altri, come potremmo essere se non fossimo quelli che siamo e riteniamo di essere. Gli altri sono sempre incarnazioni di vite che non sono toccate a noi.
E VENIAMO AGLI INGLESI. Se c’è un’- ità che ha fatto storia e scuola è proprio l’inglesità, o – per dirla nella loro lingua – l’Englishness. Un inglese è sempre un inglese che fa l’inglese. Un inglese non è solo inglese: è molto inglese (difficile che il superlativo si applichi al nome di altro popolo). L’inglesità è una costruzione degli stessi inglesi, come una ricca pubblicistica è lì ad attestare (suggerisco il rispettabile Watching the English di Kate Fox, pubblicato nel 2004, e già un classico del genere). L’inglese si sa inglese; e sa descriversi in quanto tale. Ha una coscienza sviluppatissima della sua unicità sia in casa sia fuori. L’inglese è inglese anche e soprattutto sul suolo patrio, e questo è davvero un aspetto distintivo. Viaggiando – e viaggiare gli è consueto, per turismo e per conquista, non trova occasioni per riconoscersi inglese, bensì constata la -ità dei popoli che visita. Di essere inglese lo sa di partenza, come tanta letteratura autobiografica rivela. Segnalo due capolavori: i Sette pilastri della saggezza ( 1926) di T. E. Lawrence o Lawrence d’Arabia, l’oxoniense che guidò la ribellione degli arabi contro l’impero ottomano, e Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor (1977), uno dei più bei libri di viaggio per l’Europa che siano mai stati scritti. L’inglese è riservato, perfino diffidente, però è gentile, dice grazie anche al guidatore dell’autobus, si mette sempre in coda, anche quando è ubriaco, dà per scontata la divisione tra le classi, dà per incontestabile la monarchia, ha orrore degli intrusi, è indifferente alle divagazioni, fa una cosa alla volta, non interrompe uno che parla, non si sente in dovere di parlare se il silenzio comincia a pesare, ama le risposte brevi, non fa domande personali, né accetta che gliene si facciano, non è in grado di ascoltare più di quello che intende sapere, non si lascia convincere da chi alza la voce, è pronto a ridere di tutti tranne che di sé, è portato a negare i suoi meriti per paura di mettersi in mostra, ricorre alle medesime parole quando gli si chiede di ripetere una spiegazione.
LE CARATTERISTICHE che ho appena elencato non definiscono propriamente l’inglesità. Sono, però, manifestazioni di una parte dell’inglesità, la più fondativa: la volontà di dividere nettamente la sfera pubblica da quella privata. Gli inglesi possono sembrare enigmi agli italiani. Sono gentili, sono amichevoli, però… Il però si riferisce
a una certa elusività, all’assenza di intimità, insomma, a un modo di essere cui manca sempre qualcosa. Occorre solo capire che la gentilezza e l’amichevolezza di un inglese sono gentilezza e amichevolezza pubbliche, non private. Magari un giorno quell’inglese gentile ma elusivo diventerà anche tuo amico, stabilirà con te rapporti più stretti e più confidenziali, ma per ora no. Nessun inglese è amico (confidenziale) subito. Il però, dunque, è sbagliato. Un inglese non confonde mai sentimenti personali e convenzioni sociali. Queste vengono prima di qualunque altra forma di rapporto. La gentilezza dell’inglese non è amicizia; è divisa, maschera da indossare tra la gente. La società inglese è una delle più fieramente convenzionalizzate che si possano concepire.
Un inglese non confonde mai sentimenti personali e convenzioni sociali. Queste vengono prima di qualunque altra forma di rapporto
Non c’è azione che non si riduca a gesto codificato grazie a una sistematica eliminazione di qualunque ombra di soggettività. Quando un collega ti domanda come stai, tu devi dire che stai bene, perché così ci si aspetta che tu dica. Il collega che risponde «oggi non sto bene» o «è un periodaccio» ha qualcosa di strano: o è impazzito o viene dall’Italia. Solo all’amico puoi permetterti di dire che non stai bene. L’inglesità detesta il personalistico e l’emotivo. L’egocentrismo e l’eccezione la scandalizzano. Anche presentarsi a uno sconosciuto, dando la mano e pronunciando il proprio nome, può risultare sconveniente. Meglio se le presentazioni le fa un terzo. Non ha nulla di sbagliato, invece, sgusciare via da un ritrovo senza un saluto: mettersi a salutare questo e quest’altro
sarebbe disturbo dell’ordine, oltre che prova di narcisismo. L’inglesità impone una regola per ogni cosa e questa sola regola varrà. Chi contravviene ci rimette la faccia. In Italia si litiga quando si ha disaccordo, in Inghilterra interviene un mutismo imbarazzato a salvare la situazione.
UNA SIMILE RITUALITÀ è cosa antica. La troviamo ben illustrata nei romanzi di Jane Austen. Questa autrice gode di un plauso incontrastato in Inghilterra, nonostante il passare dei secoli. Piace perché ha humour, certo, perché ci mette la sua protesta femminile, perché scrive con garbo. Ma piace anche e soprattutto perché indica in modo paradigmatico l’importanza delle maniere; insegna che senza maniere le società non esistono. L’inglesità è culto della società, ovvero del “vivere come società”. La provincia della Austen non va scambiata per l’equivalente inglese della provincia di uno Stendhal o di uno scrittore italiano. Non è tranche de vie, un localismo asfissiante e meschino da satireggiare. È, piuttosto, il palcoscenico di una vera e propria recita sociale: teatro in miniatura delle condotte, dove si rappresenta quel che l’individuo deve o non deve fare quando si rapporta ad altri individui. Si legga senz’altro Orgoglio e pregiudizio (1813). Nella costruzione dell’inglesità il culto della società presuppone un’intransigente delegittimazione dell’altro, in qualunque forma l’altro possa presentarsi: straniero o dissidente. Per opposizione l’inglesità ha finito per inglobare, dialettizzandosi dall’interno, una fondamentale protesta contro il perbenismo, l’omologazione, l’ipocrisia e l’ingiustizia. Tanto è stato pervasivo il discorso sulla conservazione dei ruoli quanto è stato vitale l’anti – discorso della liberazione e dell’eccentricità. L’uno ha sostenuto l’altro, e questa simbiosi, che ancora vediamo agire nel quotidiano corso della vita inglese, ha originato numerose meraviglie letterarie. Qui mi vengono alla mente subito tre titoli: Maurice (scritto nel 1914 ma pubblicato postumo nel 1971) di E. M. Forster, Una camera tutta per sé (1929) di Virginia Woolf e Christopher e il suo mondo (1976) di Christopher Isherwood. In tutti e tre parlano i dissidenti per eccellenza, l’omosessuale e la donna: Maurice racconta le vicende di un uomo che conquista la libertà di amare chi vuole amare, contro tutte le proibizioni. Una camera tutta per sé riflette sulla subalternità socio-economica della donna, partendo da una critica di due baluardi dell’inglesità, Oxford e Cambridge; Christopher e il suo mondo è la storia di un giovane, l’autore stesso, che mette alla prova, viaggiando per la Germania nazista e per l’Europa, le sue origini e la sua educazione. Sto citando, oltre che tre opere assai significative, tre giganti della letteratura, dei quali andrebbe letta ogni pagina. Vorrei notare che in Christopher Isherwood troviamo espressa un’altra caratteristica dell’inglesità: la capacità di guardare il mondo, anche nei momenti più difficili, con curiosità indisturbata, senza che chi guarda prenda alcunché personalmente; un essere presenti che non confonde la presenza
con la presunzione che tutto questo riguardi solo me. Un partecipare senza speranza e senza disperazione.
C’È UN ALTRO ELEMENTO dell’inglesità che ritengo essenziale: la chiarezza espressiva. L’inglesità è anche lingua, e come lingua ha più da insegnare, perseguendo la semplicità, l’efficacia, l’esattezza a discapito del vago, del contraddittorio e del pleonastico. La Woolf e Isherwood sono campioni di questa inglesità. Non sono i soli. Citerò per concludere questo catalogo di 7 un altro libro, che amo particolarmente e consiglio sempre alle mie matricole di Oxford: Storia della filosofia occidentale (1945) di Bertrand Russell. Nella
Guai a confondere popolo e società civile. L’identità culturale e spirituale la creano gli accordi tra le persone, la crea la società
forma di un riepilogo della grande tradizione europea, questo libro costituisce un inno alla ricerca intellettuale, etica e scientifica e, simultaneamente, un’elegante condanna dei fascismi e delle demagogie di ogni tempo. Servirà agli inglesi del periodo post – Brexit a ricordare che la loro inglesità è fatta d’Europa e a tutti gli altri, italiani compresi, che non c’è -ità senza intreccio di visioni e collaborazione di culture.