La ricetta «meno Stato, più mercato» non garantisce la sicurezza
Cara Lilli, perché è così difficile farsi ascoltare dai giornali e dalla gente quando si fa un’azione concreta per la prevenzione degli infortuni sul lavoro? I media ne parlano quando c’è il morto ma fare qualcosa di concreto sembra non interessare a nessuno. In Italia muoiono due persone sul lavoro al giorno, certo si è fatto molto: 10 anni fa erano tre e 30 anni fa 9. Ma sulla cultura della sicurezza c’è ancora molto da fare e la nostra Campagna “Imparare dagli errori” è un’iniziativa concreta che potrebbe avere un buon impatto se fosse più seguita e condivisa da altre ASL Italiane. Marco Canesi Agenzia di Tutela della Salute (ATS) della Brianza marco.canesi@ats-brianza.it
CARO MARCO, quando si parla di infortuni sul lavoro due morti al giorno restano inaccettabili per un Paese civile e industrializzato. E mi preoccupa molto che nel 2017, per la prima volta da oltre un decennio, il numero degli incidenti mortali è tornato a salire. Le cause sono tante: con la ripresa economica viene assunto nuovo personale non sempre preparato, i macchinari sono vecchi e con scarsa manutenzione, l’aumento del precariato ha immesso nel mercato del lavoro giovani poco formati sulla sicurezza e la nostra burocrazia, pletorica e complessa, rende difficile stipulare contratti equi per dipendenti e datori di lavoro. La parola d’ordine tanto in voga, «meno Stato, più mercato», non sembra la ricetta giusta per garantire più sicurezza. La media italiana delle morti bianche è in linea con gli altri Paesi dell’UE: abbiamo meno vittime rispetto alla Francia e alla Spagna ma più della Germania. Con il blocco del turnover degli ultimi anni però, tecnici delle Asl e ispettori del Ministero del lavoro responsabili di prevenzione e controlli, sono stati quasi dimezzati: oggi 4,4 mln di imprese italiane vengono monitorate da appena 3.500 ispettori. Sul fatto che delle vittime del lavoro si parli solo quando si muore lei ha ragione: oggi la filosofia delle news è enfatizzare quello che fa più rumore. Purtroppo a farne le spese sono – con qualche lodevole eccezione – tutti i temi sociali.
Cara Lilli, oggi il mainstream intellettuale (c’è chi lo chiama pensiero unico) ha stabilito che antipopulismo è sinonimo di democrazia. C’è qualcosa che sia più populista delle elezioni? Il possibile sillogismo mi spaventa. Roberto Bellia paradosso44@yahoo.it CARO ROBERTO, il gioco di parole può essere divertente, ma non se trattiamo di cose serie come la politica. Un’elezione è un voto popolare, ed è così che i cittadini esprimono liberamente le loro preferenze politiche. Questo si chiama democrazia. E non ha nulla a che fare col populismo che è piuttosto ciò a cui ricorrono i politici quando sono a corto di idee, programmi, convinzioni. Se vuole vivere in un Paese dove il voto per acclamazione si sostituisce alle urne, è libero di farlo. Ma si tenga pronto a subirne le conseguenze. Per quanto mi riguarda, preferisco confrontarmi con la complessità del sistema democratico che farmi sedurre dal fascino del leader forte alla Hugo Chávez che dice «Io sono il popolo». Il capo populista delegittima lo stato di diritto e contrappone le «élites corrotte» ai «cittadini onesti». Un gioco molto pericoloso che abbiamo fatto qualche decennio fa. E abbiamo perso tutti.