I l migliore della settimana: Graziella Tonello, 63 anni
È UN VENERDÌ POMERIGGIO, con mio marito accompagno al parchetto i miei nipoti, nella città del Nordest dove vivono. Il parco sembra un grande cortile quadrato: ai lati si affacciano scale, terrazze, finestre degli appartamenti vicini. In mezzo risuonano grida e strilli dei bambini della zona che si recano lì a giocare. Ora che le scuole sono chiuse e stanno lì quasi tutto il giorno. Cerco una panchina all’ombra e immediatamente un gruppetto di loro attira la mia attenzione: al centro di uno spiazzo verde è posizionato un castello di legno variopinto.
OSSERVO I RAGAZZI, l’età va dai sette, otto anni agli undici. Sono scatenati e cerco di capire cosa stanno combinando. Nel frattempo do un’occhiata veloce alle altre panchine, già tutte occupate. Ci sono soprattutto donne, italiane, indiane o forse pachistane, di colore, mamme e nonne dell’Est Europa. Ma noto che i gruppi non si mescolano, ognuna sta solo con le sue concittadine. Ritorno ai ragazzi che ormai hanno raggiunto un livello di rumore piuttosto alto, ma che si stempera nell’aria estiva, rinfrescata da un recente temporale. Ho capito: è in atto una guerra tra chi sta sopra e chi sta sotto nel castello. I due eserciti sono ben equilibrati: in ciascuno c’è un ragazzino marocchino, un ragazzino di colore, uno dell’Est, un indiano, un italiano che quando parla fa sentire il forte accento della sua regione. Loro, grazie al gioco, e a differenza delle loro mamme, si uniscono. L’arma è un grosso pallone giallo e chi viene colpito si deve allontanare un attimo. Sono scatenati, li sento gridare «Non si tratta», «Non si fanno prigionieri», ma non sento parolacce. Sono tutti fradici di sudore, per la forza e per la foga che mettono nella loro battaglia, ma si scansano al passaggio di alcuni piccolini che vogliono scendere dallo scivolo appoggiato al castello.
A UN CERTO PUNTO mi accorgo che le formazioni sono cambiate: alcuni che stavano sopra sono passati sotto. Ricominciano. Aumenta il rumore e ho paura che si facciano male, mi guardo intorno e vedo che le altre donne chiacchierano tranquillamente tra loro. Altro cambio di formazione. Un ragazzino cade sull’erba: tutti si fermano, si assicurano che non si sia fatto nulla e via di nuovo con le pallonate. Dal campanile della chiesa si sentono dei rintocchi. Uno dei più grandi, marocchino, alza un braccio, si asciuga la fronte con la maglietta e dice: «Io devo andare». «Anche io», rispondono altri. «Ci vediamo domani?» chiede uno dei ragazzini di colore. Gli altri annuiscono. Rimane il piccolo indiano, dagli occhi profondi e neri; si avvicina al mio nipote più grande e gli chiede in perfetto italiano «Posso giocare a calcio con te?».