Corriere della Sera - Sette

Christian Greco: «Per capire la civiltà digitale servono archeologi, storici e filosofi»

- Di Chiara Severgnini

Il direttore del Museo Egizio di Torino spiega perché la nostra società ha sempre più bisogno di umanisti: «Ci possono spiegare come trasformaz­ioni simili a quelle che viviamo oggi hanno cambiato le civiltà del passato». Poi ricorda il suo primo scavo e racconta le passeggiat­e con i visitatori del museo

CHRISTIAN GRECO HA 43 ANNI, dirige il Museo Egizio di Torino dal 2014, non ama essere fotografat­o e va pazzo per il suo lavoro. Me ne sono accorta quando ci siamo intrufolat­i

– per questo Doppio Binario fra le sale espositive – in un laboratori­o visibile attraverso una vetrata anche ai visitatori, per sbirciare il lavoro della restauratr­ice Cinzia Oliva alle prese con la mummia di un gatto. Lì sono successe due cose. La prima: la vista della zampetta del felino, che sporgeva da uno squarcio nelle bende, ha acceso l’entusiasmo del direttore. La seconda: quando un bambino si è avvicinato alla vetrata per vedere da vicino la mummia, Greco ha sorriso. Forse il direttore del museo che vanta la collezione di antichità egizie più importante dopo quella del Cairo un po’ si è rivisto in quel bambino incantato dai resti di una civiltà scomparsa da millenni? Cominciamo dalla sua infanzia. Materia preferita? «Alle elementari ero innamorato del sussidiari­o di storia. Al liceo anche della filosofia e del greco. Dopo la maturità ho scelto Lettere Classiche: era lo sbocco naturale per approfondi­re e coltivare la mia passione per l’antico, nata quando avevo 12 anni, durante una vacanza in Egitto. A Leiden, in Olanda, dopo l’Erasmus, ho trovato un corso di laurea quadrienna­le in Egittologi­a: un paradiso».

Oggi quante ore passa ogni giorno nel suo museo? «Molte! ( ride, ndr). Quando posso cerco di fare una passeggiat­a tra le gallerie. Mi ricordano il vero motivo per cui sono qui. E poi ci tengo a dialogare con i visitatori: i musei devono stare attenti a non diventare autorefere­nziali. Per questo ho voluto introdurre le “Passeggiat­e del direttore”: si tratta di percorsi di visita che organizzia­mo ogni mese, scegliendo di volta in volta, in accordo con i visitatori, sale e temi diversi. Per me sono sempre un momento di grande crescita. Il pubblico che partecipa è trasversal­e: ci sono giovani e meno giovani, torinesi e turisti, appassiona­ti di egittologi­a e semplici curiosi. C’è anche chi è tornato più volte».

Gli umanisti si sentono spesso dire che non riuscirann­o mai a trasformar­e la loro passione in un mestiere. Lei invece c’è riuscito.

«Sì, ma il primo incarico da egittologo l’ho avuto a 34 anni. Prima ho dovuto fare di necessità virtù mantenendo­mi con altri lavori: per sette anni ho insegnato nei licei olandesi».

C’è un pregiudizi­o nei confronti delle discipline umanistich­e?

«Sì. Stento sempre a capire perché molti pensano che uno scienziato politico sappia analizzare i problemi della società odierna e l’archeologo no. Eppure studiare le civiltà del passato permette di sviluppare competenze che sono spendibili in tante profession­i contempora­nee. Nel mio caso, credo che la mia formazione da storico del mondo antico mi abbia reso in grado di gestire il Museo Egizio. E le dirò di più: con il passaggio da una civiltà analogica a una digitale che stiamo vivendo oggi, c’è bisogno come non mai di umanisti. Servono storici e archeologi per capire come trasformaz­ioni simili hanno plasmato le civiltà che ci hanno preceduto e occorrono filosofi, sociologi e antropolog­i per interrogar­ci sulle conseguenz­e che il digitale può avere sulla nostra società. È giusto essere onesti con i ragazzi rispetto ai possibili sbocchi profession­ali di chi sceglie una facoltà umanistica, perché i posti di lavoro nel settore sono scarsi, ma questo non significa demonizzar­e queste discipline. E poi vorrei aggiungere un’altra cosa. Studiare è la cosa più meraviglio­sa che una persona possa fare, perché significa dedicare del tempo a conoscere se stessi e la società in cui si vive. Il mio posto di lavoro può cambiare, ma la conoscenza del mondo antico è una ricchezza che nessuno mi potrà mai sottrarre. Per questo dico sempre ai ragazzi che hanno la fortuna di studiare che sono di fronte al periodo più bello della loro vita, l’unico, forse, in cui si può investire esclusivam­ente su se stessi». Stiamo costruendo un futuro senza passato?

«Può sembrare che la nostra società proceda senza interesse per il passato. Ma sono sicuro che non è così. Vedere grandi code di visitatori fuori dall’Egizio ( nel 2017, il museo è stato visitato da 850.465 persone, ndr), mi ha fatto capire che c’è voglia di conoscenza. In Italia negli ultimi anni si è tornato a parlare molto di beni culturali, di musei, di archeologi­a. È vero che a volte il patrimonio archeologi­co viene bistrattat­o,

«Stento sempre a capire perché si pensa che uno scienziato politico sappia analizzare i problemi della società odierna e un archeologo no»

ma allo stesso tempo è percepito come una profonda cifra identitari­a del nostro Paese e questo mi da speranza per il futuro».

L’hanno definita spesso “un cervello di ritorno”. Ho la sensazione che questa etichetta non le piaccia. «È così. La cultura è di tutti, senza confini geografici. E poi mi va molto stretta l’idea che una persona appartenga a un Paese per motivi anagrafici. Parlare di cervelli in fuga e di ritorno, inoltre, significa non affrontare il problema della scarsa appetibili­tà dell’Italia per gli studiosi nel modo in cui andrebbe affrontato, ovvero investendo di più in educazione e ricerca».

“Ricerca” è anche una delle parole chiave della sua direzione. Perché è così importante per un museo? «Se non sappiamo quale patologia abbiamo, non possiamo curarci. Allo stesso modo, non possiamo restaurare un oggetto se non sappiamo di quali mali soffre. E non possiamo neanche raccontare la sua

«La cultura è di tutti, senza confini. Mi va molto stretta l’idea che una persona appartenga a un Paese per motivi anagrafici»

biografia, la sua storia, se non la conosciamo. E poi, come diceva Eraclito, pánta rheî, tutto scorre: nulla viene detto una volta per sempre. Vale anche per la storia: il modo in cui guardavamo all’Antico Egitto cinquant’anni fa non è lo stesso di oggi». Nell’Ottocento il Museo Egizio serviva ai Savoia per dare lustro alla patria. E oggi?

«Dev’essere un luogo di ricerca e accrescime­nto culturale. Ma non solo. Il museo è un’istituzion­e politica nel senso etimologic­o del termine, perché è inserito nel contesto sociale in cui si trova. E quindi può e deve diventare anche un luogo di incontro».

A febbraio Giorgia Meloni ha accusato l’Egizio di

«Lo stupore di un bambino di fronte a un sarcofago e il selfie di un appassiona­to con una statua danno nuova vita agli oggetti»

«razzismo nei confronti degli italiani» per l’iniziativa “Fortunato chi parla arabo”, grazie a cui i torinesi di seconda generazion­e e di lingua araba potevano acquistare due ingressi al prezzo di uno. Ha organizzat­o una protesta davanti al museo, lei è sceso per incontrarl­a. Un confronto che è diventato virale... «Spero che sia passato il messaggio: se si vuole creare un museo inclusivo, e in questo credo fermamente, si deve essere in dialogo sempre, con tutti. Chiunque si occupi di ricerca sa per esperienza diretta che il rispetto dei punti di vista diversi dal proprio è il sale della vita. Poi a volte, dopo un confronto, si decide di continuare lungo la propria strada, consapevol­i però che non viene condivisa da tutti».

È evidente che il direttore non ha molta voglia di rivangare l’episodio («Avrà notato», precisa, «che, nonostante le numerose richieste, mi sono astenuto dal rilasciare interviste in merito»). In compenso, parlerebbe per ore dei visitatori del museo. «Ogni tanto», racconta, «incontro torinesi che mi dicono che non tornano al Museo Egizio perché ci sono già stati in quarta elementare. Questo succede quando si identifica il museo con le sue vetrine. Ma in realtà il museo è un ente vivo, fatto dagli uomini e le donne che ci hanno lavorato e ci lavorano, ma anche dai visitatori di ieri e di oggi. E quindi anche dalle migliaia di torinesi che sono stati qui in quarta elementare e conservano il ricordo per il resto della loro vita. Lo

stupore del bambino di fronte a un sarcofago e il selfie di un appassiona­to davanti a una statua regalano una nuova vita agli oggetti che custodiamo». Di selfie, passando da una sala all’altra, non ne abbiamo visti, in compenso c’erano tanti visitatori con le audioguide nelle orecchie, rapiti da questa o quella vetrina. E poi molte famiglie con bambini: in mattinata, mentre visitavo il museo da sola, ho incrociato anche una giovane mamma che allattava tra un sarcofago e l’altro.

Nel 2015 il Museo Egizio è tornato a scavare, dopo sedici anni, su sua iniziativa: a Saqqara, a Sud del Cairo, in collaboraz­ione con il Rijksmuseu­m di Leiden. Da allora lei ci è andato tutti gli anni. Un caso raro tra i direttori di museo italiani. «Cerchiamo tutti, ciascuno a modo suo, di ritagliarc­i degli spazi per coltivare la passione che ci ha spinto a studiare una civiltà antica. Perché non bisogna mai trascurare il fanciullin­o “pascoliano” dentro di noi, quello che ci ha spinto, anni fa, a fare la scelta apparentem­ente antieconom­ica e irrazional­e di dedicarci allo studio di una civiltà antica».

Il suo primo scavo?

«Nord della Siria, avevo 21 anni. Trovammo un archivio di tavolette cuneiformi che attestavan­o la corrispond­enza tra il governator­e locale e la capitale assira, Assur. Lì capii che l’archeologi­a è di per sé distruttiv­a, perché quando si sottrae un livello per scavare fino a quello sottostant­e, lo si distrugge per sempre. Per questo bisogna documentar­e tutto nei minimi dettagli: solo così chi verrà dopo di noi potrà ricostruir­e le scelte fatte e capire i nostri eventuali errori. Per un non specialist­a credo possa sembrare noioso, perché tutto procede molto lentamente».

E invece?

«Invece ogni tassello che si riporta alla luce era del tutto sconosciut­o fino all’istante prima che venisse trovato: la consapevol­ezza di questo fatto regala un’emozione fortissima. La passione di noi archeologi deriva tutta da lì».

Per lavoro si occupa del passato, ma deve pensare continuame­nte al futuro del museo, degli scavi, delle mostre. Se avesse la macchina del tempo andrebbe indietro o in avanti?

«Viaggerei fino al 2518 per capire il momento storico che stiamo vivendo ora. Ma vorrei anche tornare indietro fino alla XVIII dinastia ( 1543-1292 a.C., ndr) per incontrare i sacerdoti egizi del tempio di Amon e chiedere loro il significat­o dei testi cosmografi­ci che decorano meraviglio­samente le tombe della Valle dei Re e la Valle delle Regine…»

Dopo questa risposta da egittologo per vocazione, il direttore ci concede qualche ultimo scatto. Si è fatto tardi e il museo è chiuso: di bambini in estasi davanti alle mummie non ce ne sono più. In compenso c’è un signore di 43 anni che sorride davanti a un papiro.

«Ogni tassello che si riporta alla luce durante uno scavo era sconosciut­o fino all’istante prima che venisse trovato: è un’emozione fortissima»

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? L’ALDILÀ DEGLI ANIMALI Da sinistra, la restauratr­ice Cinzia Oliva, l’autrice dell’articolo, Chiara Severgnini, il direttore Greco e una tirocinant­e. Sul tavolo, tre mummie animali
L’ALDILÀ DEGLI ANIMALI Da sinistra, la restauratr­ice Cinzia Oliva, l’autrice dell’articolo, Chiara Severgnini, il direttore Greco e una tirocinant­e. Sul tavolo, tre mummie animali
 ??  ?? PASSEGGIAT­A LUNGO IL PAPIRO Greco davanti alla vetrina in cui è esposto il Libro dei Morti di Taysnakht (332-30 a.C.)
PASSEGGIAT­A LUNGO IL PAPIRO Greco davanti alla vetrina in cui è esposto il Libro dei Morti di Taysnakht (332-30 a.C.)
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy