Nashville. La vita è una colonna sonora
IMMAGINATE LA VOSTRA GIORNATA SOTTOLINEATA DALLA PRESENZA COSTANTE DELLA MUSICA. È CIÒ CHE AVVIENE NELLA CAPITALE DEL COUNTRY. E NEI BAR SI FANNO INCONTRI STRAORDINARI
DICE, ANZI SOFFIA: « Hakuna Matata, nessun problema. Vuole la musica più alta?». L’omone con i basettoni color dello spazio profondo allarga le braccia verso la signorina Cindy, che porta stivaletti da Calamity Jane e ha i capelli cotonati come nei migliori college degli Anni 60, diciamo un tipino tra Sandra Dee e Natalie Wood. Cindy è appena uscita dagli uffici di The Pinnacle, il grattacielo più moderno della città della musica country, sesto in ordine di altezza con i suoi 29 piani nella classifica guidata dal Batman Building, la torre di AT&T (33). L’omone indica il tesoro del piccolo museo: l’opera omnia, gli anelli, le giacche nere e le chitarre di Johnny Cash, The Man in Black, oltre 90 milioni di dischi venduti, l’amico-rivale di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e Bob Dylan, consumato dagli eccessi e morto nel 2003.
A Nashville la musica è un motivo per arrivare alla
LA CANZONE DI CARRADINE I’M EASY RESTA IL MANIFESTO DI UNA GENERAZIONE
Lfine della giornata, e non solo sulla Broadway, la principale arteria urbana, o nelle vie della movida downtown. Entra come un soffice missile nel breakfast, uova pancetta e salsiccia. Vibra nelle cuffie dei runner durante la corsa mattutina lungo il ponte sul fiume Cumberland. Esce dai finestrini dei pick-up impolverati e delle auto con i vetri oscurati dei pendolari che dopo le 17 rientrano in coda. Rimbalza nei 99 parchi della contea, nei negozi per cowboy, nei campus universitari, nelle casette di mattoni che hanno resistito ai piani regolatori, negli edifici neoclassici e nei locali sempre aperti dove Jack Daniels e Bourbon vengono serviti al posto del tè. Risuona all’uscita delle chiese metodiste. Accompagna i tifosi dei Tennessee Titans, nella Football League, e le partite dei Nashville Predators, stelle della Hockey League, nella Bridgestone Arena. Oggi come ieri, a Nashville, la città dove i taxi gialli sono una rarità e anche gli agenti consigliano ai turisti in difficoltà di chiamare Uber, la musica ti gira intorno.
È UNA COLONNA SONORA, un’onda lunga che ti avvolge fino a diventare una filosofia di vita. Nei bar uno spuntino di nachos e noccioline caricato di salse piccanti con birra quasi trasparente, costa meno di dieci dollari. Ma i concerti che accompagnano la sosta sono di ottimo livello, blues e gospel compresi nel prezzo. Da sempre Nashville è un palcoscenico a cielo aperto, preso d’assalto da un esercito di musicisti in cerca di gloria: tentano la sorte sperando di strappare un contratto alle majors del disco che qui hanno sedi linde e lunari come astronavi, così come la più importante azienda mondiale di chitarre, la Gibson. La fortuna (forse) aiuta gli audaci e un colorato backstage segue il ritmo cittadino fatto di operosi cantieri e oasi verdi in cui cinguettano i pettirossi. Dove i senzatetto vengono abilmente nascosti dal marketing urbano. Dove un tempo c’erano i totem degli indiani Cherokee e Creek. Dove
oggi è insediata la più folta comunità curda degli Stati Uniti. Dove il sosia impacciato di Donald Trump chiede cinque dollari per un selfie e, al rifiuto, gira le spalle riavvolgendo il ciuffo a tappeto. La città che fu avamposto della Guerra di Secessione e approdo di sceriffi, pistoleri e bounty killer, fedele nei secoli al Partito democratico come tutto il Tennessee, la prima città che secondo gli indicatori economici uscì dalla stretta della crisi aperta nel 2008 dopo lo scandalo dei mutui subprime, è legata alla tradizione ma non ama vivere di ricordi. La Nashville del passato assomiglia alla Nashville del presente. È una fortezza fondata sul burro di arachidi, l’innovazione e la buona agricoltura che si difende dagli assalti delle altre capitali sudiste della musica: New Orleans e, soprattutto, la vicina Memphis.
Nei boschi dei dintorni puoi trovare armadilli, cerbiatti e falchi dalla coda rossa. I volti e le canzoni di Johnny Cash, Patsy Cline, Dolly Parton, Willie Nelson, Hank Williams, Kenny Rogers e tutte le altre star della Country Music Hall of Fame, migliaia di ingressi al mese, sono dappertutto. Ma c’è spazio anche per divi meno allineati come Taylor Swift, Keith Urban, Neil Young. Cimeli, immagini, souvenir, dischi rari.
LA CADILLAC COLOR CREMA DI ELVIS, i juke box carenati, le motociclette da maxi-raduno, i giubbotti di pelle, i gadget con le insegne di guerra dei nativi. Note vaganti su un’armonica a bocca. Schitarrate, assoli e jam session. Il cinema, no: è una voce più lontana nel diario quotidiano dei nashvillians. Nessuna traccia evidente del capolavoro di Robert Altman del 1975, un evento. Keith Carradine vinse l’Oscar per la miglior canzone, I’m easy, manifesto di una generazione.
Lily Tomlin, Karen Black, Geraldine Chaplin, Cristina Raines e Shelley Duvall ante Shining offrivano un’articolata gallery sulle complicazioni delle ragazze
Anni Settanta. In due ore e quaranta, Altman racconta vite che s’intrecciano, si scontrano e si uniscono mentre si celebra l’annuale convention di musica campagnola.
DOLCE VITA AMERICANA
MILLENNIALS AMANO LA SERIE TV NASHVILLE IN ONDA DAL 2012
È IL SOGNO AMERICANO che attraversa l’universo country-western, e spesso fa cilecca. In attesa del successo, la cameriera si umilia con lo strip. Carradine consegna la chitarra all’autista e gli dice: scrivi anche tu una canzone. Come se fosse facile, allora come oggi. In parallelo, c’era la candidatura del demagogo Hal Phillip Walker alle primarie presidenziali. La stella Barbara Jean cantava per lui, il candidato, e il giovane Kenny le tira un colpo senza un motivo. Lo show deve continuare, la hit è It don’t worry me, Non me ne preoccupo. La commedia umana, tradotta in una drammatica rapsodia, diventa una lezione sull’America in cammino.
In tutto questo la città si riconosce. Eppure di tutto questo la signorina Cindy, laggiù al Johnny Cash Museum, sa poco o nulla. I millennials non perdono una puntata della serie tv Nashville interpretata da Connie Britton e Hayden Panettiere e trasmessa da Abc dal 2012. Ma faticano a ricordare Honkytonk Man di Clint Eastwood, 1982, dal romanzo di Clancy Carlile ispirato alla vita di Jimmie Rodgers, crepuscolare racconto del viaggio verso Nashville di Red Stovall, countryman senza picchi di talento, alcolizzato e malato di tbc, negli anni della Grande Depressione: Stoval, che porta con sé il nipote, interpretato dal figlio di Clint Eastwood, Kyle, deve affrontare un’audizione al Grand Ole Opry, il programma radiofonico di musica western più ascoltato degli Stati Uniti. Nashville diventa un simbolo. L’ultima occasione, una meta da rincorrere, spesso invano. Eastwood, che ha da poco compiuto 88 anni e ha scritto altre adorabili pagine di cinema, ama le atmosfere country. Dice la leggenda che quel film contenga la lezione di Sergio Leone, di cui Clint, cinque Oscar, è stato un allievo docile e attento. Dice la leggenda che l’Honkytonk Man, appassionato di blues, lo consideri una delle prove migliori della sua splendente carriera e una dichiarazione d’amore verso la città della musica e dei sogni da saloon.