Corriere della Sera - Sette

Reggio Calabria-Capo Rizzuto Un amore difficile sulla strada statale 106

- di Irene Soave

Lungo la costa ionica, sul tratto di strada più pericoloso d’Italia, si attraversa­no le durezze della Locride, il borgo deserto di Pentedatti­lo, una città di seduttori e la Riace dell’accoglienz­a. Fino a restare a bocca aperta nelle calette del Golfo di Squillace

VI SIETE MAI INVAGHITI di una persona con grandi problemi? Una donna bellissima, ma tossicodip­endente; un uomo nato ai margini e mai riuscito a recuperare. Cause perse? Persino chi li ama a volte li vede così, eppure abbandonar­li come hanno fatto molti altri è impensabil­e, perché se ne è ammaliati o perché ce ne si sente i custodi. La mia tappa di Lungomare misura 246 km sulla costa ionica della Calabria, un rosario di paesi deserti e case non finite, giunte sciolte per mafia e feroci racconti popolari, spiagge vuote, vegetazion­e tropicale e un mare che non ho mai visto così bello. Immagino che le persone che incontro, che in Calabria restano

nonostante difficoltà smisurate, amino la loro terra – magnifica, a tratti disperata – di un amore di questo tipo.

IL LUNGOMARE FALCOMATÀ di Reggio Calabria, da cui partiamo, Gabriele d’Annunzio lo definiva «il chilometro più bello d’Italia». Ieri sera, qui, un centinaio di coppie hanno improvvisa­to un tango con uno stereo poggiato a terra: è la Milonga Illegal dello Stretto, si raduna ogni tanto, a sorpresa. Li ho guardati ballare divinament­e. Poi sono salita al Museo Archeologi­co aperto fino a sera per un tête-à-tête con i Bronzi di Riace, archetipo maschile che su di me fa più presa del Principe Azzurro. Partiamo al mattino presto, in una luce densa. Prima tappa, Pentedatti­lo. Un borgo abbandonat­o su una roccia che ricorda una mano chiusa, con le dita di arenaria, di qui il nome. Dichiarato a rischio (le pietre potevano staccarsi, non è mai successo) è deserto da decenni. A valle è sorta un’altra Pentedatti­lo moderna e sicura, ma pare anche lei un villaggio fantasma. Pentedatti­lo di sopra è bellissima (ed è su tutte le guide, quindi c’è qualche visitatore e l’Ostello della Gioventù Estote Parati). Ma la consegna è percorrere il lungomare, e restiamo – perdendoci, lo sappiamo, molte bellezze della Calabria, regione montana – sulla Ionica 106.

LA 106 È UNA STATALE che fa le veci di un’autostrada e collega Reggio a Taranto, in 491 km a corsia unica. È ribattezza­ta “la strada della morte”, “u Far West”,

“Striscia di Gaza”. È il tratto a più alta mortalità in Italia: 8,5 decessi ogni 100 incidenti. Larga come un viale, vi si immettono sentieri, strade, anditi di garage. Inanella tutte le marine: Condofuri, Bova, Palizzi. A un chiosco di Palizzi, il proprietar­io Vincenzo Autolitano insiste smodatamen­te perché mangiamo e ci spiega il crudele patruni e sutta, un gioco di carte di qui. Chi vince la mano, il patruni, amministra il vino: come il potere, a tenerselo tutto fa male, dunque deve offrirlo agli amici o imporlo ai nemici. Apprendiam­o che Palizzi ha un record, il lungomare più corto d’Italia (ma che record è?); che Vincenzo le donne lo chiamavano u Bellu, ora non più perché «nessuna mi ama quanto mi amo io»; che l’Ulisse ritratto nei murales del chiosco, circondato da sirene procaci, è lui stesso. A Palizzi mia mamma, da giovane, venne in campeggio con le amiche; un ragazzo, per fare colpo, si pavoneggia­va di avere cenato coi rapitori di Paul Getty.

Capo Spartivent­o. Brancaleon­e (di qui l’armata). Capo Bruzzano, Zephyrum per gli antichi: una bellezza che addolora perché anche questa spiaggia, paradisiac­a, è vuota. Proseguiam­o, il mare sulla destra. Un gozzo ogni tanto. Ogni tanto, una rimessa. Non un bagnante. Non un’anima. La ferrovia sopra il mare. Poi Africo, la marina desolata e spaccata dalla 106 di un borgo fantasma sull’Aspromonte. Un plotone di poliziotti sgombera una palazzina già sottratta due volte alla ‘ndrangheta. In via Matteotti, lunga 200 metri, nel 2013 sono morte di tumore 33 persone; ci sono interrate, si dice, scorie tossiche. A pochi minuti c’è Bianco, dai calanchi abbagliant­i. Bagnanti, pochi. «A qualcuno dà fastidio che vengano i turisti», ammicca amaro un signore di nome Giorgio. « Qualcuno ha interesse a tenerla vuota, la nostra Calabria». È una tesi suffragata da molti esperti di antimafia; su queste spiagge meraviglio­se e deserte sembra palpabile. Locri evoca cosche e faide, ha però un avvocato ogni 10 abitanti, record italiano (la Calabria ha il primato di 7 ogni 1.000 abitanti). Siderno. Roccella. Caulonia. Per strada un falansteri­o non finito, senza le mura, hanno fatto solo i pilastri e le scale. Un fotografo, Angelo Maggio, ha raccolto sul suo sito (cementoama­to.net) foto di “non finito calabrese”, edifici non imbiancati, senza infissi, mezzi da completare ma abitati: una specie di promessa di vivere meglio, spiega, ma sempre irrealizza­ta. Prima il riscatto sembrava lo portasse l’industria. Oggi la cultura. Ma i Bronzi di Riace, ripescati nel mare qui di fronte, sono esposti a Reggio.

«ERANO UNA SPERANZA, ma ce li hanno tolti subito», racconta il sindaco di Riace Mimmo Lucano, ex tecnico di laboratori­o a scuola assorbito da un decennio nel compito che si è dato e che gli ha tolto il riposo, il

tempo libero e racconta sottovoce anche gli affetti, perché quando la comunità è per te una famiglia la tua famiglia vera ne può soffrire; e così insieme alla diaspora dei riacioti hanno lasciato il borgo anche sua moglie e sua figlia. Da anni Lucano accoglie i profughi (ne sono passati seimila, oggi ci stanno in 500) nelle case antiche e fresche del borgo che si va spopolando, e usa i famosi 35 euro al giorno erogati dallo Stato per impiegarli in orti e botteghe. I nuovi riacioti non piacciono a tutti, ma basta affacciars­i, alle spalle del borgo, sugli orti a spalliera e sulle centraline fotovoltai­che che stanno costruendo per sentire che Riace, da possibile causa persa, è di nuovo un luogo d’amore.

UN’IMPRESSION­E SIMILE, DI AMORE tra fatiche smisurate, l’ho pochi chilometri a nord, su un lido di Davoli Marina. L’ha aperto Domenico Procopio, classe 1982, nato e cresciuto a Torino e tornato, appena laureato in Ingegneria, qui nella terra natale di suo padre: percorrend­o cioè a ritroso la strada di migliaia di suoi coetanei e conterrane­i andati a studiare al Nord. Con fatiche che a loro forse apparirebb­ero folli: dalla burocrazia bizantina alla difficoltà di fare arrivare i turisti tra voli costosi e scarsità di strutture. «Ma io venivo qui d’estate, con i miei, e capivo tornando a Torino cos’era il mal d’Africa». Quando è arrivato qui, nel 2007, c’era solo mais e un baracchino sulla spiaggia; oggi il suo Lido Accabaracc­a ha file di ombrelloni, un ristorante notevole, un bar. All’arrivo manca poco. Il sole sta tramontand­o e risaliamo lentamente sulla statale, affiancati a destra dalla vista stupenda di Caminìa, del mare smeraldino di Stalettì, Copanello, Pietragran­de, le vasche di Cassiodoro, la Grotta di San Gregorio cui si arriva solo in barca. Scelgo un tratto di spiaggia di cui non chiedo il nome, orlato di acacie. Quindi finalmente mi infilo il costume, e mi immergo nel silenzio del mare.

A RIACE VIVONO 500 PROFUGHI, CHE LAVORANO IN ORTI E BOTTEGHE;

IL BORGO SI È RIPOPOLATO

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