PER CHI NON CAPISCE LA SICILIA
Un ritorno a casa, un tuffo nella propria infanzia tra spiagge bianche, granite memorabili, anziani artigiani e pescherecci dal nome femminile. Viaggio nella Sicilia settentrionale, terra di conquista del turismo ma anche di angoli impossibili da scovare per chi qui non è nato e cresciuto
«MA QUI È MOLTO DIVERSO da San Vito Lo Capo?», chiede Antonio il videomaker, in piedi sugli scogli di Monte Cofano, facendo una panoramica delle rocce di tufo che diventano acqua.
« San Vito è il turismo che scopre la Sicilia occidentale, mentre Monte Cofano è la Sicilia occidentale che non vuole farsi scoprire», rispondo contemplando i pochi coraggiosi turisti arrampicati sulle rocce in un paesaggio che potrebbe essere del Mesozoico. La montagna incombe su di noi, e il mare, come direbbe Paolo Conte, è semplicemente venerabile.
Raccontare la costa Nord della Sicilia è per me un viaggio nel tempo, più che nello spazio. Qui ci sono cresciuto, qui ho imparato a pescare, amare, respirare.
« Perché vuoi andare a San Vito?», domanda Antonio mentre il fotografo, Pietro, che insegue sogni di reportage impegnati, accarezza la sua fotocamera come per rabbonirla.
« Andiamo a San Vito perché lì c’è il turismo e ci sono pure un faro meraviglioso, una spiaggia che a certe ore diventa arancio e a settembre, non ora Antonio, lì si fa il festival del cous cous».
« Mi hai convinto», s’arrende il videomaker, di solito più cocciuto di una pietra dei Campi Flegrei. « Allora andia-
mo, è pure vicino». Dopo mezz’ora guardiamo il faro, la gente in spiaggia contendersi centimetri quadri di paradiso disponendo le tovaglie come in un Tetris accaldato e vertiginoso. Nelle fratture della montagna vivevano tribù di Neanderthal. Gente che se ne intendeva, pensando a cosa doveva essere questa spiaggia deserta.
VIAGGIAMO ora verso la capitale del Mediterraneo, almeno del Mediterraneo dell’anno 1200 da dove l’illuminato Federico II di Svevia faceva ombra all’intera Europa. Palermo oggi è in festa, allegra come una sposina: è capitale della cultura italiana e da qualche settimana Manifesta, la biennale europea dell’arte contemporanea, vive in città con le sue duecento mostre.
« Perché ci hai portato a Mondello?», domanda Antonio. Spiego con accondiscendenza: « Perché da quando sono nato vado a Mondello, e non capisco perché interrompere questa tradizione».
« Dovremmo mangiare un panino», implora Pietro, il fotografo. Li faccio scendere davanti al bar Alba, tempio della rosticceria, a ridosso della spiaggia. Tornano dopo mezz’ora, satolli. « Pazzesco», dice Antonio, « avevano anche gli involtini di pesce spada, non solo gli arancini». « Che cosa hai detto?». « Gli involtini…». « No, l’altra cosa». « Gli arancini. Che c’è?». « Scendi da questa macchina. La Volvo è pensata per gente civile». « Che c’è di incivile in quello che ho mangiato?», balbetta Antonio, consapevole che fuori a piedi, sotto il sole, sarebbe un uomo quasi morto. « Il genere, Antonio. È sempre una questione di genere. Le arancine sono femmine, sono soltanto femmine. E se anche una parte dell’Isola si ostina a non capirlo, bene, penso di potermene fottere allegramente. Qui guido io, e decido io chi sta sulla Volvo con me». Il videomaker ride, ma non sa se è il caso. Gli do una pacca e dico: « Stavolta ti perdono. Andiamo all’Addaura». Antonio ora è più rilassato. « Ci porti a vedere la villa dove provarono a fare l’attentato al giudice Falcone?».
« No». « Perché no?». « Perché questo è il Lunghissimo Lungomare non un mafia tour. Quando vuoi lo facciamo insieme, ma senza distrarci con spiagge e rosticcerie. E allora ti porterò a onorare gli eroi, il fior fiore di questo Paese massacrato da Cosa Nostra. Va bene?». « Va bene», deglutisce Antonio. « Intanto se vuoi restare in tema, alla tua destra c’è il cimitero dei Rotoli, con tombe vista mare». « Hai veramente uno humor nero», sussurra da dietro il fotografo.
«È UNA QUESTIONE DI GENERE: LE ARANCINE SONO FEMMINE, SOLO E SOLTANTO FEMMINE»
NON POSSO DARGLI TORTO. Penso però che se ci fosse un aldilà, vorrei una sepoltura da cui guardando il largo si possa scorgere, nelle giornate limpide, persino l’isola di Ustica.
Sfioriamo il porto antico della Cala, e poi la Kalsa, quartiere arabo sul lungomare. La strada ci conduce a Porticello, dove ormeggia la seconda flotta peschereccia dopo quella di Mazara del Vallo.
Le barche hanno nomi di donne, come in ogni porto. La protettrice della zona è la Madonna dei Lumi, bonaria madre degli equipaggi in pericolo. A un angolo della spianata del porto c’è un cantiere dove ancora ci sono mastri d’ascia.
Un uomo che sembra un personaggio di Jack London, con un’enorme barba bianca su un corpo esile e duro, ci
si fa incontro. Mi guarda, poi mi abbraccia con tutta la forza ossuta delle sue braccia. Faccio una smorfia.
« Ma che? Non mi arricanusci? Ciccio sono. Ciccio, il figlio di Mastro Michele».
IL NOME DEL VECCHIO ARTIGIANO mi colpisce come un cazzotto. Mi allontano di un passo. È la mia infanzia che torna sotto le sembianze di un eroe londoniano. Comincio a ricordarmi, poi mi ricordo tutto, nei più piccoli particolari. Lui era un ragazzino con cui giocavo a strummula, la trottola fatta con un chiodo ficcato in un corpo tondo di legno che s’azionava con un laccio. L’abilità era tutta nel tirarlo, quel laccio, e di liberarsi con grazia della strummula mentre cominciava le sue rotazioni. Ciccio era molto bravo, certo che me lo ricordo. Avevamo otto anni. Mi ha riconosciuto un secolo dopo.
« E tu che fai ora?», gli chiedo indicando lo scafo di legno che è sui cavalletti, il fasciame lucido, frutto di un lavoro certosino e magistrale.
« Quello che faceva mio padre: barche da pesca». « E come va?». Ciccio mi sorride con gentilezza. « Che vuoi… Va così. La gente accatta la vetroresina».
Poi allunga lo sguardo su Santa Nicolicchia, un gioiello di punta di roccia racchiuso tra due mari. Ci sono i cartelli di divieto di balneazione, la gente si tuffa egualmente. Nessuno fa domande.
RIPRENDIAMO IL CAMMINO, e sulla strada prima di Cefalù incontriamo l’insensato agglomerato industriale: capannoni di lamiera per tre, quattro chilometri, in riva al mare. Poi per fortuna intravediamo la rocca di Cefalù, il duomo normanno che svetta sul paese più francese della costa. È un trionfo di turisti d’ogni dove, di gelati e granite memorabili, di dolcezze e di amori che nascono. Cefalù era un mito già negli anni Sessanta. E lo è ancora. La costa viaggia veloce, più di noi. Ci lasciamo alla nostra sinistra Santo Stefano di Camastra con le sue terrecotte, Capo d’Orlando con i sassi di mare e i limoni più buoni, mentre davanti a noi si scorgono le Eolie, vulcani emersi che sedussero persino Ulisse.
Messina è lì in fondo, poco oltre capo Milazzo e le sue vigne. È una città ferita dal terremoto del 1908 che si distende sulla propria storia, adagiata in riva alla Sicilia. Di fronte a sé ha Reggio Calabria. « Quelli sì che sono fortunati», mi disse un giorno un amico messinese.
« Perché?», chiesi io, ingenuo.
« Perché la mattina si svegliano e vedono la Sicilia».
«QUELLI DI REGGIO CALABRIA SONO FORTUNATI: LA MATTINA SI SVEGLIANO E VEDONO LA SICILIA »