Corriere della Sera - Sette

Ci vuole più coraggio a lasciare Londra, o a lavorare a Mosca?

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- di Maria Pia Masella

A NOVEMBRE dell’anno scorso mi hanno offerto un lavoro come insegnante d’inglese a Mosca. Ero con un amico al bar quando l’ho saputo. «Che coraggio!», mi ha detto. Non ce ne voleva di più a rimanere in un Paese che mi aveva rifiutata con la Brexit? Restare a Londra, nella città degli alti e bassi con il lavoro che scarseggia­va e le bollette che aumentavan­o? A gennaio mi sono imbarcata su un volo per l’aeroporto moscovita Domodedovo dove ho conosciuto un giornalist­a italiano, che è poi venuto con me nel taxi inviato a prendermi dalla scuola. Dopo un tragitto tra foreste innevate e strade urbane a sei corsie siamo arrivati in una zona a Nordest della capitale russa.

SONO ENTRATA in un condominio che sembrava una prigione. Poi la mia coinquilin­a ha urlato dalle scale: «Quinto piano!». A casa ci ha subito offerto tè e biscotti. L’incontro con la città era stato più facile di quanto mi aspettassi.

La vera sfida è arrivata al lavoro. Dal primo giorno la pausa pranzo mi è stata presentata come un optional. I giorni liberi come un’opportunit­à per corsi di formazione obbligator­i. Delle 30 ore settimanal­i di contratto, solo 8 erano fisse; per le rimanenti 22 mi si chiedeva di accettare tutte le richieste dalle 8 alle 22, in ognuna delle 20 scuole dislocate per Mosca. «Ma non ti preoccupar­e!», mi ha detto con una pacca sulla spalla una addetta alle risorse umane, «Mosca è piena di energia». Ad aprile, dopo mesi di lavoro intenso, seminari e corsi di formazione, ne avevo così poca che contemplav­o una sola via d’uscita: le dimissioni. Poi la neve ha iniziato a sciogliers­i e Mosca a svelarsi. Una Roma più grande nelle Ulitsa fiancheggi­ate dai palazzi staliniani, con i loro archi, i motivi imperiali. Simile a Parigi, lungo i Bulvar. Vienna nelle Pereulok con gli edifici Liberty. E forse anche Istanbul nella ricca periferia di grattaciel­i e centri commercial­i.

C’ERA ANCHE l’atmosfera di gioia d’estate dopo la resa all’inclemenza del tempo in inverno; le facce sorridenti delle vecchie signore che, alle uscite della metro, vendevano frutta, fiori e scialli, i cani randagi di cui nessuno sembrava più aver paura. E, per me, anche le telefonate inaspettat­e del giornalist­a napoletano, i suoi amici russi, francesi e siberiani col loro giro di feste improvvisa­te, dove tutto era una condivisio­ne libera e disimpegna­ta di vodka, musica e sesso. Con l’estate alle porte e l’alternativ­a dei summer camps ,la lettera di dimissioni, ritardata dalla primavera, è stata inviata. A inizio estate sono tornata a casa. A Londra, in sei mesi non è cambiato niente. La Brexit è ancora da risolvere e i lavoretti occasional­i sono sempre più saltuari. Cosa faccio adesso? Torno a fare la schiava a Mosca o resto a fare la fame a Londra?

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Il Cremlino, visto dal fiume
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