Ravenna-Venezia Ponti, calli, canali e ciclabili
Tra l’incontro con l’eremita Bepi e quello con i runners sulla spiaggia di Marina di Ravenna, viaggio fino alla Laguna, dove acqua dolce e salata si incontrano
DOVE L’ACQUA IN DISCESA dalle Alpi va infine a confondersi con quella dell’Adriatico è tutto un ribollire di correnti, onde anomale e gorghi. Dolce e salato fanno a pugni e il loro conflitto è sottolineato dai colori di contrasto: il verde sporco, melmoso, dei fiumi smuove la sabbia dei fondali e incupisce a tratti il blu del mare, che qui non è profondo neppure a tre miglia dalle coste, tanto da creare infide secche e fastidiose onde frangenti alla prima bava di vento. «L’acqua salata scorre sul fondo, quella dolce, più leggera, resta in superficie. Anche se d’inverno la corrente del fiume tende a prevalere sino a che si estingue in mare aperto», racconta Luca, figlio ventenne di una famiglia di pescatori da generazioni e generazioni, che a bordo di un gommone dalla frazioncina di Pila ci conduce alle isolette più esterne del vasto delta per arrivare alla capannuccia di quello che qui è noto come “Bepi l’eremita”, una sorta di auto-imposto Robinson Crusoe del Po.
CI ACCOGLIE CON UN LARGO SORRISO, sottolineato dall’allegria dei suoi occhi azzurri, perle chiare nel volto abbronzato, sembrano non smettere mai di stupirsi della bellezza remota della natura tutto attorno. Il suo nome è Giuseppe Crepaldi, nato 82 anni fa qui nel Polesine è “single” impenitente, da 25 ha scelto la solitudine e l’autosufficienza (anche se tre o quattro mesi d’inverno in genere va dai fratelli a Gattinara). Ma non sempre con successo. «Sono un eremita fallito. Nei giorni di bel tempo arrivano di continuo visitatori. Ultimamente vengono in barca scolaresche intere anche
da Ravenna, Chioggia, Venezia e Ferrara. Altro che solitudine!», spiega ironico. Pure, a guardarlo bene la cosa sembra fargli profondo piacere. Si è attrezzato con due generatori e pannelli solari. Nell’aia ha costruito un tavolone protetto da un canniccio, dove si organizzano pranzi per chi ha con sé da mangiare al sacco. Il suo cane Buk scodinzola di continuo all’arrivo del primo “foresto”. Bepi, l’eremita socievole, riassume un poco lo spirito di questo segmento del nostro viaggio tra Ravenna e Venezia. Una regione solo apparentemente burbera, in antichità caratterizzata da paludi ostili dalla laguna della Serenissima sino alle valli di Comacchio, di lotta costante tra terra e acqua, alluvioni periodiche, zanzare, difficoltà di spostamento, ma in realtà ormai da decenni ricca, ospitale e carica di sorprese. Il primo
«DA UN ANNO SONO SPARITI I MIGRANTI CHE VENDEVANO LA LORO MERCANZIA AI BAGNANTI»
segnale in questo senso giunge già alle nove della mattina a Marina di Ravenna. C’eravamo arrivati alla ricerca di «spiagge chiuse» e col fine di capire se anche qui si presenta, come ogni estate in alcune aree delle coste italiane, l’annosa questione di eventuali limiti alla sacrosanta libertà di pubblico accesso al mare. Siamo stati rassicurati. «Abbiamo decine e decine di chilometri di spiagge date in appalto a stabilimenti balneari e hotel. E gli accessi sono ovunque assolutamente liberi, compresa la fascia larga cinque metri di diritto di passaggio sul bagnasciuga prevista dalle nostre leggi», confermano bagnini, runners in allenamento lungo la costa, turisti e persino alla stazione dei carabinieri locale. Problema grave restano invece i festini alcolici del fine settimana. «Ogni sabato e domenica mattina troviamo tra sdraio e ombrelloni vetri di bottiglie, immondizia di ogni genere. La polizia controlla le strade, ma fa ben poco sulle spiagge», denunciano i bagnini del Park Hotel e dei bagni Big Mama Beach. Qui la polizia si è per contro ben attrezzata con potenti moto da sabbia a tre ruote per dare la caccia ai vucumprà, come si diceva una volta. Ne hanno quattro nella sola Marina di Ravenna. Quelli presi rischiano anche 500 euro di multa e persino di essere trattenuti in cella. «Da un anno sono spariti tutti i migranti che vendevano la loro mercanzia ai bagnanti. Personalmente non mi davano fastidio, ma c’erano state proteste», conferma Alessandra Ghirardelli, bagnina di lungo corso.
A LIDO DI SPINA verso il più elitario Lido degli Estensi ci inoltriamo tra le pinete appena dietro le dune prima della spiaggia leggendo le pagine del classico Viaggio in Italia di Guido Piovene tra il 1953 e il 1956. Un mondo totalmente altro, il suo, dominato da povertà e ignoranza, eppure già lanciato nell’ebbrezza del boom economico, con i primi segnali dello spopolamento delle campagne stregate dalla chimera dell’urbanizzazione, la nascita dei nuovi poli industriali come Porto Marghera, l’avvio della motorizzazione di massa. «Da Ravenna a
Chioggia una volta dominavano gigantesche foreste di proprietà di antiche famiglie nobiliari e latifondiste come i Mandelli, i Ferruzzi, i Gardini. Sono nata a Comacchio nel 1963 e già stavano disboscando per creare le cittadine turistiche della costa. I miei genitori ne parlavano come di un periodo di prosperità magica dalle infinite prospettive. C’era lavoro per tutti. Oggi molto meno. Basti pensare che da queste parti sono almeno 25 anni che non si costruiscono case nuove. Però i nostri standard di vita continuano a migliorare», ricorda Natalina Bonazza, agente immobiliare. È lei che insiste per allargare il nostro tour alla «piccola Venezia delle anguille», che è il centro di Comacchio. Guido Piovene ne parlava come di uno dei luoghi «più miseri dell’Italia del nord». Noi c’imbattiamo in un incantevole centro storico lacustre con ponti in mattoni rossi del Tredicesimo secolo, pulito, ricco di ristoranti e trattorie. E qui quattro coppie di ciclisti tedeschi di età compresa tra i sessanta e settant’anni mostrano fiere la mappa del loro «giro d’Italia a pedali» per 15 giorni, con tappe da circa 60 chilometri quotidiani, tra Venezia e Ferrara. Sono contenti, ma riportiamo volentieri due loro critiche: le ciclabili italiane sono ancora poche, mal segnate, e soprattutto le nostre ferrovie restano male o per nulla attrezzate per trasportare le due ruote.
NEL WEEKEND, AL MATTINO, TRA SDRAIO E OMBRELLONI I BAGNINI TROVANO IMMONDIZIA E BOTTIGLIE ROTTE
I CHIOGGIOTTI in genere guardano con disprezzo a Venezia. «Troppo artificiale, troppi turisti, troppo caos. Ormai è diventata un gigantesco bazar per tutto l’anno», dicono apertamente, esaltando l’autenticità palpabile delle loro piccole calli, della loro flotta di pescherecci ancora viva e vegeta, oltre ai mercati di bancarelle dominati dal dialetto veneto. E probabilmente Piovene sarebbe stato d’accordo. Anche se lui era abbagliato dalle potenzialità del turismo internazionale e dalle opportunità di lavoro offerte dalle industrie di Mestre, pur se sprigionanti nuvole di veleni chimici, a un pugno di chilometri da San Marco. Oggi le ciminiere restano un memento minaccioso sulla skyline della Laguna. Ma almeno su di un punto nulla è cambiato tra le calli di Venezia nell’ultimo sessantennio: resta una città che va a piedi. Scriveva Piovene: «Un’abitudine mentale fa credere che i veneziani si muovano soprattutto in barca. Invece il mezzo di locomozione più usato è il più umano, le gambe». Come dargli torto?