Corriere della Sera - Sette

Leghisti e grillini hanno già rinunciato a semplifica­re il burocrates­e

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«SE VÔI

l’ammirazzio­ne de l’amichi / nun faje capì mai quello che dichi”». Decenni e decenni dopo, la morale della mitica poesia che Trilussa dedicò probabilme­nte ai burocrati è sempre più attuale. Ricordate? S’intitolava «Er pappagallo ermetico» e raccontava che «Un Pappagallo recitava Dante: / “Pape Satàn, pape Satàn aleppe…” / Ammalappen­a un critico lo seppe / corse a sentillo e disse: / “È impression­ante!” / Oggiggiorn­o, chi esprime er su’ pensiero / senza spiegasse bene, è un genio vero: / un genio ch’è rimasto per modestia / nascosto ner cervello d’una bestia…». E lì arrivava il tocco finale: «Se vôi l’ammirazzio­ne de l’amichi / nun faje capì mai quello che dichi». Tradotto in un’analisi politica, era più o meno la celeberrim­a tesi del sociologo, filosofo, economista tedesco Max Weber, morto all’inizio della Repubblica di Weimar:

«Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorit­à della sua posizione mantenendo segrete le sue informazio­ni e le sue intenzioni».

Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico». L’arrivo del governo giallo-verde, sbandierat­o come il «governo del cambiament­o», non ha cambiato di una virgola il linguaggio astruso di una burocrazia tutta tesa a proteggere le chiavi d’accesso al labirinto legislativ­o, chiavi che permettono di entrare solo Di Maio-Salvini. Governo del cambiament­o? Linguistic­amente, non in meglio agli «amici», ai sodali, agli alleati, ai complici. La stessa parola «linguaggio», così importante per scrittori come Italo Calvino che non sopportava «l’antilingua, l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”», non c’è neppure nel «contratto di governo». Non esiste.

COME SE PRIMA

ancora di cominciare a governare, i ministri e sottosegre­tari grillini e leghisti avessero rinunciato a tentare di cambiare la burocrazia come tentò di fare un quarto di secolo fa, ad esempio, Sabino Cassese. Che col suo «Codice di stile» voluto da Carlo Azeglio Ciampi (non a caso laureato in lettere) cercava di spiegare alle mezzemanic­he l’importanza di «timbrare» il biglietto anziché «obliterarl­o». Una battaglia perduta. Come se a Luigi Di Maio e Matteo Salvini, teorici quotidiani e alluvional­i del «parlar chiaro», della battuta rapida, della immediatez­za dello slogan, non interessas­se un fico secco di essere chiari e facili da capire nella traduzione pratica delle loro idee. Cioè le leggi, i regolament­i, i passaggi parlamenta­ri. Chi se ne frega se un provvedime­nto trabocca di «Quinquies», «Octies» e «Duodecies»? Tanto è già tutto in un tweet… La plebe si accontenti di quello. Il resto va lasciato agli «esperti».

SCRISSE ANNI FA

il filosofo del linguaggio Massimo Baldini d’aver sentito spesso Tullio De Mauro raccontare di persone che si lagnavano «dell’eccessiva semplicità della esposizion­e di questo o di quello e ben poche dell’oscurità di certi gerghi iniziatici».

Ci sono persone che di fronte a un discorso chiaro rimangono completame­nte indifferen­ti,

ma «se voi gli dite che “a livello di strutture profonde e di correlati sistemici neurologic­amente saturati sussiste la necessitaz­ione semiotica del condiziona­mento rematico del translingu­istico”, a queste persone brillano gli occhi. E vi guardano con entusiasmo, anche se non capiscono, anzi, proprio perché non capiscono». E magari scrolliamo poi la testa sospirando se uno studio di Confartigi­anato, come la settimana scorsa, spiega che l’eccesso di burocrazia è un peso enorme per l’economia e il nostro vivere quotidiano… O che al Sud questa burocrazia pesa il 48,2% in più…

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