Corriere della Sera - Sette

La collettivi­zzazione del dolore conduce al peggior populismo

- Setteemezz­o@rcs.it

Cara Lilli, il giorno di Ferragosto mi trovavo in una famosa città

di villeggiat­ura. Pochi giorni prima era avvenuta la tragedia di Genova. Ciononosta­nte la sera c’è stato un rumorosiss­imo concerto bandistico, seguito da canti corali, urla festose, esposizion­e di macchine d’epoca. Una volta esisteva la “giornata di lutto nazionale” che ora evidenteme­nte non usa più. Confesso che quella sera di Ferragosto mi sono vergognata di essere italiana. Una cara amica polacca era con me ed era stupita per l’indifferen­za che si percepiva in quelle strade a poche centinaia di chilometri da Genova. CARA VALERIA,

Valeria Bettoni v.bettoni@virgilio.it

non sono d’accordo, anche se capisco la sua rabbia e sono vicina a coloro che hanno perduto una persona cara nella tragedia di Genova. Il fatto che il famoso paese dove lei stava in vacanza non si sia fermato il giorno dopo il crollo del ponte, è in fondo irrilevant­e. E chiedere un giorno di lutto nazionale è sbagliato. Il lutto pubblico è ormai una consuetudi­ne: per chi è morto nelle guerre, per le vittime di disastri naturali o provocati dall’incuria umana. Ma ha perso il suo senso più profondo. Pensiamo di poterci liberare da qualsiasi responsabi­lità individual­e e collettiva commuovend­oci tutti insieme e offrendo il nostro tributo di dolore ai deceduti, senza chiederci cosa avremmo potuto-dovuto fare prima del disastro. Nella Bibbia Dio chiede a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». E lui risponde come troppo spesso facciamo noi: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Penso di sì, perché accanto alla ricerca del nostro interesse c’è anche quello degli altri. Il collasso del ponte di Genova è una terribile metafora del nostro collasso politico e sociale. Che sia per un viadotto, per una guerra dichiarata, per le migliaia di persone mandate a morire o per Madre terra che grida aiuto, come cittadini abbiamo il dovere di tenere il potere responsabi­le delle sue decisioni. La collettivi­zzazione del dolore da lei suggerito ci conduce verso il peggior populismo. Mette insieme una comunità convinta di essere stata vittima di oscure macchinazi­oni che la vogliono distrugger­e. Invece siamo tutti un po’ colpevoli delle crepe e lacerazion­i che fanno crollare i ponti e le società libere.

Cara Lilli, propongo, sperando che sia così, una diversa visione

dell’incontro tra Salvini e Orbán: parlare a nuora (Visegrád) perché suocera (UE) intenda. Ma forse sto gratifican­do Salvini di una statura politica che, in termini identici ma con statura politica diversa, mi augurai avesse, a suo tempo, Berlusconi.

Roberto Bellia paradosso4­4@yahoo.it

CARO ROBERTO,

il compagno di strada che Salvini ha scelto in Europa pensa, come gli altri Paesi di Visegrád, che l’Ue sia un bancomat dove prendere tanti soldi senza rispettare gli impegni presi. Nel 2016, l’Ungheria ha contribuit­o al bilancio UE con 924 milioni di euro, ma ha ricevuto 4,5 miliardi. Mercoledì scorso, l’Europarlam­ento ha votato le sanzioni contro Budapest per alcune gravi violazioni considerat­e un «rischio sistemico» per la democrazia che riguardano le nuove leggi sulla Costituzio­ne, sulla stampa, sulla magistratu­ra, sulle ong. Inoltre, corruzione e nepotismo sono galoppanti soprattutt­o nell’uso di fondi europei pari al 4,4% del Pil ungherese, quindi della metà degli investimen­ti pubblici del Paese. Nel 2017 per esempio, 35 appalti per l’illuminazi­one stradale sono andati tutti a una società controllat­a dal genero di Orbán. L’economia ungherese corre, grazie all’Europa. Vogliamo pretendere almeno il rispetto delle regole minime?

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