PERCHÉ CI SERVE LA STORIA?
Viviamo in un’epoca memorialistica: conserviamo per i posteri più tracce possibili, istituiamo feste nazionali, storicizziamo il presente per riconciliarci col passato. Ma non bisogna cedere all’ipertrofia della memoria: perché la storia possa essere utile, va studiata con senso critico ALL’EPOCA IN CUI FU PRESIDENTE
degli Stati Uniti, George W. Bush disse, a proposito della guerra del Vietnam, che «una grande nazione non può permettersi memorie che fomentino discordia». Qualche anno dopo (nel 2016) un altro presidente statunitense, Barack Obama, pur essendo ai suoi antipodi, in una conversazione con la scrittrice Marilynne Robinson pubblicata sulla New York Review of Books, elogiò anche lui l’«amnesia americana»: «L’America è famosa per essere a-storica, dimenticare è uno dei nostri punti di forza», disse. Ponendosi in esplicita contrapposizione alla «memoria lunga» di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto tra sciiti e sunniti, provocano ancora, dopo che sono trascorsi milletrecento anni, feroci contrasti. Dobbiamo considerare quelle dei due presidenti come dichiarazioni contro il culto, o quantomeno lo studio, della storia?
NO. SONO PRESE DI POSIZIONE,
molto frequenti nel mondo anglosassone, che mirano esclusivamente a ripudiare i frutti avvelenati della memoria e della storia. Ma per quello che riguarda la storia in sé valgono sempre due massime fondamentali. La prima è di Walter Benjamin: «Nulla di ciò che è avvenuto va dato mai perso per la storia». La seconda è di Philip Jenkins: «La migliore ragione per studiare sul serio la storia è che praticamente tutti usano il passato nelle discussioni quotidiane».
In che senso? Per rispondere a questa domanda ci si deve rifare a Donald Kagan, che, nel suo saggio Thucydides – The reinvention of history (Viking, 2009), smonta l’assunto tucidideo secondo il quale la democrazia diretta funzionava solo quando la polis aveva la fortuna di essere guidata da un leader carismatico e le disgrazie di Atene alla fine del quinto secolo erano tutte riconducibili alla scomparsa di Pericle, al venir meno di galantuomini come Nicia e all’avvento di demagoghi come Cleone e Alcibiade. I fatti, ricostruisce Kagan, andarono diversamente. Al terzo anno della guerra con Sparta, quando morì Pericle, scrive Kagan, «le risorse finanziarie ateniesi stavano per esaurirsi, l’ammassarsi della popolazione dentro le mura aggravava gli effetti della peste e per quanto la strategia di Pericle potesse apparire ottima, nei fatti si stava rivelando disastrosa e aveva già da tempo cominciato a far perdere abbondantemente il consenso al leader». E, invece, fu proprio quel Cleone, odiato da Tucidide, «che con azione temeraria inflisse agli Spartani un rovescio umiliante nell’isola di Pilo, cavando gli ateniesi dall’impasse». La sconfitta finale, fa notare Kagan, arrivò solo venticinque anni più tardi in ragione della disastrosa spedizione in Sicilia nella quale perì il fior fiore della gioventù ateniese «sotto l’incerta guida di Nicia, lodato da Tucidide proprio per occultarne l’inettitudine in quella tragica avventura siciliana».
E LA MEMORIA?
Secondo Pierre Nora, niente è più moderno della memoria. Oggi quando si chiede ai francesi di citare i principali libri della letteratura nazionale, non ci si sente più rispondere «quelli di Balzac o di Stendhal» ma, piuttosto, I Saggi di Montaigne,