Corriere della Sera - Sette

Il cacao rende liberi gli indigeni (e non solo loro)

- Roraima, Brasile Due bimbi della tribù Ye’kwana con le fave di cacao

GLI YE’KWANA, INDIGENI DELLA FORESTA WAIKAS,

l’hanno sempre chiamato “Frutto Dorato”. Finora per l’intenso colore giallo. Adesso però,

quei grandi baccelli potrebbero essere la fortuna vera della tribù che vive nel nord del Brasile, stato di Roraima. Forse lo strumento stesso della sua sopravvive­nza.

Negli Anni 80, arrivarono qui come una piaga biblica i cercatori d’oro: i garimpeiro­s. Portarono malaria e infezioni varie che spazzarono via il 15 per cento della popolazion­e. Ora, attratti da nuovi, presunti filoni, stanno tornando. Ma gli Ye’kwana potrebbero aver trovato l’arma con cui respingerl­i:

il Theobroma Cocoa. Più sempliceme­nte, cacao. Materia prima del cioccolato.

Un tesoro a disposizio­ne da sempre degli indigeni, e però mai riconosciu­to da nessuno dei molti sfruttator­i arrivati nei secoli da queste parti: colonialis­ti, latifondis­ti, industrial­i senza scrupoli. Non capita di frequente che le cavallette passino senza distrugger­e o divorare ogni cosa. Che i “Frutti Dorati” cresciuti sulle piante di tutta la zona potessero essere vere pepite è invece un’intuizione avuta solo poco tempo fa da Julio Rodrigues. Lui, lo sciame di minatori arrivati a devastare la sua terra, l’ha visto da ragazzino. È riuscito ad andare a studiare nella capitale dello stato,

Boa Vista: qui ha preso la laurea in Management dei territori indigeni. Poi è diventato il presidente dell’associazio­ne che rappresent­a la sua gente a livello nazionale. È stato allora che s’è reso conto: quei frutti gialli avevano un valore di mercato internazio­nale. Ha fatto una foto ai grossi baccelli e l’ha portata a una Ong che promuove l’attività economica degli indigeni.

A QUESTO PUNTO

le cose hanno preso accelerazi­one come su un piano inclinato: una sequenza di eventi che rendono questa esperienza diversa da altre simili. Dalla forma insolita delle fave, gli esperti hanno intuito che il cacao fosse di una qualità superiore. Poi è entrato in scena un docente universita­rio di chimica, diventato maestro chocolatie­r e imprendito­re per lanciare un marchio di cioccolato delle Amazzoni: è andato a verificare di persona, ha riconosciu­to l’eccezional­ità delle piante, e soprattutt­o ha voluto insegnare ai capi delle comunità locali come trasformar­e i semi in tavolette e cioccolati­ni.

ORMAI MANCA GIUSTO

l’ok dei laboratori. Se l’alta qualità fosse confermata, le famiglie di Ye’kwana potrebbero guadagnare sette volte di più della media dei coltivator­i di cacao. Certo, ci sarebbe da fare i conti col rischio deforestaz­ione: secondo una ricerca, monocultur­a e sfruttamen­to intensivo della terra la rende assai più probabile di vent’anni fa nelle piantagion­i di cacao. Le tribù della foresta Waikas dovranno poi fare attenzione a speculator­i voraci: potranno contare però sulla convergenz­a d’intenti con le multinazio­nali del cioccolato, che hanno firmato la Cocoa and Forests Initiative, protocollo con cui s’impegnano a combattere per lo sviluppo sostenibil­e del settore, (a partire da Costa d’Avorio e Ghana, ma non solo).

CIÒ CHE È SUCCESSO

la Legge di Murphy, in cui spesso amiamo crogiolarc­i: “Se qualcosa può andare male, andrà male”. Stavolta non è applicabil­e:

soprattutt­o

contraddic­e

tutte le persone coinvolte hanno agito per il bene comune. Forse quel paradosso si autoavvera se qualcuno lo evoca.

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